Il rock è quel genere dove si usano praticamente solo tre accordi, ma è difficilissimo farlo bene. I rischi sono tanti: di sembrare banali, ripetitivi, di non aver la giusta botta. È, insomma, questione di equilibri, sonori e no: in bilico tra passato, la tradizione, e la giusta spinta verso il futuro, l’innovazione.
La sindrome di Kessler cammina fieramente su questa sottile linea, a cavallo tra gli anni ’90 e quella sana dose di sfrontatezza che li fa emergere in maniera diretta, spontanea, nel decennio della “crisi”.
Un rock di chiara matrice post-grunge è l’ingrediente principale del loro omonimo album, uscito nel 2015: i riferimenti più immediati sono gli Afterhours, i Marlene Kuntz e la scena alternative anni ’90, senza però risultare derivativa o fine a se stessa. Sono molte le sfumature, dalle pieghe blues di “Parabola di un desiderio” fino alle derive psichedeliche e art rock (meraviglioso quel violoncello!) di “Le direzioni”. Si canta a squarciagola nel proto-inno di “Fanfarlo”, grazie al sapiente lavoro del cantante Antonio Buomprisco, e si vola nei paesaggi sonori di “La lenta detonazione delle nuvole”, strumentale efficace e d’impatto grazie al lavoro di Canio Giordano (chitarra/voce/effetti), Luca Mucciolo (batteria) e soprattutto Roberto Cola, bassista creativo e fortemente espressivo. La sindrome di Kessler ha tirato fuori dal cilindro un album tirato, sospeso in continua tensione, nervoso, di accelerazioni e attese, come, per l’appunto, nel singolo “In attesa”, piccolo manifesto sonoro del disco.
Arrivati a “New day”, brano che conclude il disco (ma attenzione, non perdete la ghost track) c’è la certezza che il quartetto romano ha tanto da dire e da aggiungere al calderone dell’alternative rock contemporaneo.
Riccardo De Stefano