– di Riccardo Magni –
– foto di Claudia Pajewski –
La Rappresentante di Lista, band creata nel 2011 da Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina, che nel tempo si è allargata fino ai sei elementi attuali, torna col nuovo album Go Go Diva (Woodworm) a tre anni di distanza dall’ultimo Bu Bu Sad e dopo la lunga attività che ne è seguita. Hanno scelto di nuovo una protagonista femminile come guida attraverso la loro foresta di parole e musica per parlare di temi quanto mai attuali, trasformandosi ancora una volta nei set ed in un sound molto rinnovato rispetto al passato.
Cambiare restando fedeli a se stessi, riconoscibili. Voi come ci riuscite?
Dario: è questione di possibilità e tempo. Iniziando la scrittura dei testi, abbiamo deciso di avviare una ricerca approfondita sui suoni elettronici, i synth, i campionamenti, le voci e la parte ritmica, che è tutta campionata ad eccezione della batteria. Sono suoni che a chi come noi scrive con pianoforte o chitarra, possono sembrare freddi, artificiali. Quel processo invece ci ha portato a farli nostri e riuscire ad usarli come strumenti.
Continuate ad espandervi con Roberto Calabrese alla batteria. A che esigenza artistica risponde?
Veronica: per il disco non bastava più il set di prima, e la batteria è uno strumento molto complesso che mi piace definire “orchestra percussiva”. Roberto aveva già collaborato in alcuni live tipo il Sicilia Queer Filmfest, è un elemento a noi molto caro ed è venuto naturale coinvolgerlo. Poi, se in futuro dovesse servire, non vedo perché non coinvolgere ulteriori elementi.
Dario: mi viene in mente Bu Bu Suite, quando ci siamo trovati sul palco con un trio d’archi, un’arpa, un piano, le percussioni e un flauto. Lì avevamo bisogno di quel tipo di ensemble e ci piace pensare che il nostro sia un progetto non in espansione, ma in trasformazione. Credo che l’identità vada oltre la forma o gli strumenti suonati, il nostro modo di fare musica è sempre al servizio di ciò che vogliamo esprimere sul momento e ci piace che sia così: assolutamente malleabile, fluido, queer, trasversale…
Il rinnovamento era chiaro già dal primo singolo, Questo corpo, forte nel messaggio, nelle sonorità e nel video. Che intenzione c’era dietro questo brano?
Dario: facendo una canzone o un video, quasi mai l’intenzione è di stupire il pubblico, ma esprimere elementi del proprio pensiero. Ci siamo accorti che quel messaggio era urgente ed attuale solo dopo l’uscita, ma eravamo certi che, nonostante il cambio di sound e tematiche, fosse il brano giusto per accompagnare gli ascoltatori da Bu Bu Sad a Go Go Diva, e sarebbe stata la open track e il primo singolo perché per noi è il brano manifesto dell’album, che racchiude in se tutti i temi trattati nonostante il testo molto selettivo, che parla del corpo della donna.
Il corpo. Siamo abituati a separarlo dalla mente, abbiamo con lui un rapporto conflittuale fino a non considerarlo parte integrante del nostro essere. È invece fondamentale, soprattutto per un attore.
Dario: il teatro ci ha insegnato a partire dal corpo per raccontare le emozioni. È una visione olistica quanto più lontana da quella occidentale, illuminista, che tende a dividere appunto mente e corpo. Mentre è fondamentale considerare il proprio stare al mondo come un insieme di organismi vivi, che sono i nostri corpi.
Veronica: nei laboratori teatrali ci dicevano che il punto di partenza è questo corpo neutro. Un corpo con forte presenza che quando deve muoversi nello spazio, amplifica ogni gesto, deve pensare di spostare l’aria. Penso quindi a quanto sia importante essere totalmente presenti nelle proprie scelte, muoversi nel mondo con questo spostare l’aria, l’equilibrio. Nella vita accadono cose che da un momento all’altro ti spostano e tu devi essere saldo, si dovrebbe fare in modo che tutti riescano ad avere questa presenza solida. Anche se si può sbagliare e le strade prese ci portano poi da tutt’altra parte. Attraverso le canzoni, mi piacerebbe creare personaggi che anche sbagliando o cambiando, fanno il primo passo consapevolmente verso qualcosa in cui credono.
Per “Guarda come sono diventata” Veronica si è chiesta se il padre, che non c’è più, sappia com’è diventata. Una domanda che chi ha perso un genitore si pone. Tu credi che saresti potuta essere diversa?
Veronica: è uno di quegli eventi che sposta l’equilibrio. Ma riconoscere un genitore come persona, al di là del ruolo che ha poi nella tua vita è il primo grande sconvolgimento, la prima grande “morte del padre”: percepirlo come un uomo con la sua vita, pensieri, desideri, istinti e necessità, alti e bassi vari. L’interrogativo è stato: cosa cambierebbe nella nostra percezione rincontrandoci? Io mi sento molto forte ma lo sarei stata se non fosse successo tutto ciò? Sarei diversa? Certamente c’è stato un grande spostamento, tutto è molto cambiato, io sono cambiata, ma una risposta non si può avere, non credo esista una soluzione. E va bene così.
In più o meno tutte le canzoni sembra vi rivolgiate ad una persona. Ma poi quella persona, sembra siate sempre voi stessi.
Dario: in questo momento della vita, da autore, credo che il miglior modo di parlare a qualcuno sia parlare a se stessi. Queste canzoni parlano di me e Veronica, o meglio era così fino a ieri, mentre le scrivevamo, ora speriamo che parlino di chi le ascolta. Il bello della musica è che si trasforma: nonostante sia incisa, diventa poi materia viva nel momento in cui passa nelle orecchie delle persone.
Il tempo di tutte le canzoni è il “qui e ora”. A quale urgenza risponde? E perché ci è così difficile vivere il momento?
Veronica: perché significa fare i conti con una serie di cose che arrivano come una valanga. Pensa al momento in cui vuoi un attimo staccare la spina, ti fermi e ti travolge un ciclone di pensieri su tutto ciò che è stato, sul perché di determinate scelte. È un peso potete da reggere.
Dario: nella scrittura del disco ci siamo concentrati molto sul concetto di ascolto. L’hic et nunc è anche una delle basi fondamentali del teatro: l’attore è sempre nel “qui ed ora” perché è lì, in quel momento, nella storia che sta raccontando, a vivere quelle emozioni. Una cosa che ci eravamo prefissati era proprio voler sottolineare questa esigenza, l’ascolto delle emozioni.
The Bomba e Panico, in maniera molto diversa fra loro, fanno riferimento ad una realtà auto costruita in cui sostanzialmente ci rifugiamo. In negativo, attraverso i social che finiamo per plasmare sul nostro gusto fino ad illuderci che il mondo sia davvero così, ed in una maniera poetica alla “La Vita è bella” di Benigni, cullandoci in una favola per esorcizzare il male della realtà.
Dario: non avevo mai pensato all’accostamento con “La Vita è bella” ma è vero, l’ho colto appena lo hai accennato. Cerco sempre di non esprimere la mia opinione attraverso i social network perché credo che sia assolutamente deleterio discutere lì. È un falso mito che su internet ci si possa confrontare liberamente, un grosso errore. Non c’è il filtro dello sguardo. Se io e te parliamo guardandoci le possibilità con cui mi pronuncio mutano. Dietro uno schermo non avviene, siamo in una stanza dell’eco e continuiamo a sentire solo la nostra voce ribadita da chi la pensa esattamente come noi, ci formiamo una realtà parallela. Ci si creano delle isole al di fuori delle quali c’è lo sconosciuto, l’altro visto come nemico. Questo vuol dire confrontarsi sui social. In La Bomba abbiamo deciso di parlare di alcuni temi molto diversi tra loro, che vanno dal muro di Trump alla bomba di Kim Jong-un, fino ad arrivare a cosa vuol dire fare figli in questo momento. Lo abbiamo detto come ci veniva di dirlo, con una filastrocca punk.
Veronica: La cosa fondamentale è incontrarsi. Conosco amici che hanno chiuso legami di una vita per divergenze nate sui social. Ma questo avveniva anche prima, nei messaggi e anche per telefono manca il contatto visivo. Non avendo modo di guardare il tuo stare, non lo posso percepire, e quel filtro può creare fraintendimenti. Non voglio così, essere completamente fuori dal tempo, ma l’incontro resta fondamentale soprattutto per temi importanti come la società, la politica o i rapporti umani.
Nei testi inserite delle “didascalie” tra parentesi, che un po’ come una scuola di recitazione danno indicazioni sull’interpretazione, su come cantare il brano.
Dario: Si, se apri un copione spesso capita che ci siano le indicazioni del drammaturgo. Noi volevamo dare all’ascoltatore la possibilità di cantare le nostre canzoni suggerendo indicazioni sul come cantarle. Un po’ non accontentarsi delle parole scritte nelle canzoni ed aggiungere ancora qualcosa.
Veronica: Enfatizzarle più che altro. Ovviamente non vuole essere nulla di categorico, chi ha voglia di cantare la canzone in silenzio lo faccia, però essendo gli autori, abbiamo sentito di voler specificare com’è per noi.
Siete reduci dall’esperienza a Berlino con i vostri colleghi di etichetta Woodworm, che esperienza vi portate dentro?
Dario: è sembrato come andare in vacanza tutti insieme, in un posto che amiamo, ad incontrare altre persone che amano quella città. Gran parte del pubblico era di italiani che hanno colto l’occasione per visitare Berlino, e per noi è stato anche il modo per conoscere più da vicino artisti dell’etichetta in cui siamo entrati da poco. È stata un’occasione di scambio molto interessante.
Veronica: Ci siamo divertiti moltissimo, anche se un pallino che un po’ rimane è capire che tipo di ascolto si può creare con un pubblico davvero internazionale, tipo al Pitchfork o al Primavera, dove tocchi davvero con mano cosa significa essere ascoltati dal ragazzo spagnolo, indiano, tedesco o giapponese, che ti sente lì per la prima volta.