Ruins Barren, per dirla alla Boris, è “molto poco italiano”. Se mettete su “Land of desolation” scordatevi di sentire innocui ritornelli pop e singalong in maggiore tipici delle produzioni di questi anni.
No, prendete un ideale aereo e fate un viaggio dall’altra parte dell’oceano, in quell’America terre delle possibilità (spesso deluse) e, a bordo di una moto, dirigetevi sulle polverose highway americane, dove il tempo sembra sospeso. Tra quegli orizzonti dove il sole è sempre a metà e la strada si protrae oltre all’orizzonte, sembrano prendere corpo le storie raccontate da Ruins Barren.
“Land of desolation” è un viaggio nelle ombre dell’Uomo, reso dilaniante e profondo dal modo di cantare di Ruins Barren, ideale punto di incontro tra Tom Waits e lo Springsteen più intenso. Gli adagi hanno il profumo del legno della chitarra acustica, spesso accompagnata dal sibilo della chitarra slide o dalla voce stridula dell’armonica, per raccontare il blues dell’uomo solitario.
Ed è inevitabile che la lingua scelta sia l’inglese, la più adatta per cantare le storie di perdizione di “Land of desolation”.
“Land of desolation” è un disco di anime sole, perse. Prostitute, ladri e fuorilegge – come “Charles Wilson Ford” – sono i protagonisti di questa sorta di wasteland eliotiana, illuminata giusto dalla tenue luce elettrica dei neon o delle lampade dei motel. Gli amori vengono consumati e pagati ad ore, come in “2nd floor room 104”, lì dove uomini e donne si incontrano per poco, nella speranza di trovare un po’ di calore per rendere meno solitaria la propria esistenza.
“Land of desolation” non è un disco rincuorante. È lancinante, suggestivo. Odora di tabacco e whiskey e racconta l’altro lato del mondo, quello notturno e sotterraneo, quello dimenticato dalla luce del Sole, dove questi figli di un dio minore tentano – forse invano – di trovare riparo dalla tempesta.
Ascoltatelo di notte per fare un viaggio in un mondo così diverso, ma così reale, profondo e suggestivo.