Da poco è uscito per Coltellini Dischi Volume 2, il nuovo EP de La Cattedrale, progetto nato nel cuore di Rebibbia dall’idea di Adriano Donati (già fondatore dei Plaza Sempione).
Adriano apre con questo progetto una via alla sua emotività attraverso le spigolosità e le contraddizioni che ci troviamo davanti nel quotidiano. Ci siamo sentiti telefonicamente per parlare di questo lavoro, che continua il racconto iniziato con Volume 1 (2022).
Hai avuto vari progetti musicali, ma per nessuno di questi usi il tuo nome di battesimo. Come mai e come mai proprio La Cattedrale?
La scelta di non usare il mio nome viene dal fatto che sono cresciuto con quel retaggio culturale di Alessandra Amoroso, Annalisa, Elisa… e ho sempre pensato che non mi sarebbe piaciuto essere identificato con quell’immaginario da pop sanremese. Io sono cresciuto ascoltando gruppi e volevo rendere quell’idea.
Poi mi fossi chiamato David Bowie forse forse avrei pure usato il mio nome, però mi chiamo Adriano Donati e non suona così bene. Per il progetto de La Cattedrale, volevo dare l’idea di qualcosa di gotico, grande, imponente e “La Cattedrale” era un nome perfetto per quello che avevo in mente. Immaginavo proprio Notre Dame, qualcosa del genere: l’idea di una figura imponente si adattava bene al tipo di musica che voglio fare.
Dà anche l’idea di qualcosa di freddo, non nel senso che non comunica nulla, ma comunica freddezza. Bisogna ammettere che la tua musica non è proprio un inno alla gioia!
“La Cattedrale” è grande e imponente, ma deve dare al tempo stesso quel senso di claustrofobia. Questa freddezza nella musica la ricerco proprio. Tra l’altro, anche cercando di essere il più unico possibile, uno si porta sempre dietro la roba con cui è cresciuto ed è la stessa sensazione che ritrovo nei miei ascolti. Nel mio caso, sono cresciuto con gruppi tipo Afterhours, Verdena, tutta quella scena lì.
E poi è vero, non sono proprio un inno alla gioia [ride, nda]! Quello dipende molto dal vissuto, anche perché in Italia o parli d’amore (e parlo anche di quello, anche se in modo non troppo esplicito) o parli di cose tue. Quando succedono cose belle tendo a raccontarle agli amici, non mi va troppo di scriverle nelle canzoni. La musica per me è una seduta dallo psicologo.
Tornando al discorso sui nomi, è una cosa che fai anche coi titoli dei dischi: Volume 1 e Volume 2.
Sì, ma quella è pigrizia [ride, nda]. Devo dire che però ho da anni il titolo che vorrei dare a un EP e che forse prima o poi userò, magari per il Volume 3, che sarà un EP di otto canzoni. Dai, te lo dico: In continua ripresa. Però anche se sono pigro e non mi andava di pensare altri titoli, non è l’unico motivo: volevo dire che La Cattedrale è La Cattedrale e basta, senza altre definizioni.
Cosa è cambiato dal tuo progetto precedente, Plaza Sempione?
Eh, innanzitutto gli anni! Quelli si fanno sentire. Il progetto precedente è iniziato per divertimento tra amici, io scrivevo le canzoni, le portavo in sala e le registravamo, solo dopo è diventata una cosa un po’ più grande. È stato bello quel periodo, ma credo non fossi abbastanza libero. Essendo in tre o quattro bisognava sempre incastrare gli orari e le esigenze di tutti, era molto bello e divertente, ma solo da solo ho trovato quella dimensione per cui riesco a scrivere quando voglio scrivere, far uscire i pezzi quando voglio farli uscire e a farli miei al 100%.
Sono due progetti che però mi piacciono tantissimo, sono miei quindi ci mancherebbe [ride, nda]. Quel disco [Pochi Ma Vuoti, nda] l’ho scritto a diciotto anni, adesso ne ho ventisei: a volte mi piacerebbe tornare a scrivere come scrivevo a diciotto anni, ma è una questione di percorsi e di crescita.
Cosa ti piacerebbe riprendere di quegli anni?
Più vai avanti più il passato ti sembra semplice. A diciotto anni è tutto figo, non pensi a nulla, ti sembra di avere mille problemi ma poi ti accorgi che non sono niente. La cosa diversa è che prima magari prendevo la chitarra, buttavo giù gli accordi e il testo mi usciva tutto subito. Adesso ci lavoro di più, ma ogni tanto vorrei avere indietro quella spontaneità.
Quindi è più il modo in cui scrivevi.
Sì, poi a diciotto anni finisci il liceo, rimani con gli amici stretti, inizia il periodo universitario, ti diverti; con gli anni un amico trova lavoro e va a Torino, un altro si sposta a Parigi, cambia un po’ tutto e devi fare i conti col fatto che sei cresciuto.
E come è la scena a Roma?
A Roma fa schifo [ride, nda], è un casino. Mi sono reso conto con amici che stanno, appunto, a Torino o nelle piccole province che c’è una scena e che in quella scena ci si aiuta a vicenda. Qui a Roma funziona molto la logica del “morte tua vita mia”.
Però bisogna ammettere che ci sono anche tante persone che credono tanto in te e ti aiutano. Nel mio caso è anche difficile dire che genere suono, perché è quello che esce spontaneamente senza stare a pensarci troppo, quindi non mi inserisco in una scena vera e propria. Per semplificare dico che faccio post punk, che è un genere che si avvicina molto a quello che faccio e sicuramente un’influenza c’è, ma c’è anche tanto l’influenza degli anni Novanta, dei primi Duemila, di band tipo Smashing Pumpkins, The Flaming Lips, gli Strokes (anche se non si sentono nei miei pezzi).
Volume 1 e Volume 2 contengono tutti i pezzi che hai pubblicato tranne uno, il tuo singolo di esordio, Cura speciale. Come mai l’hai lasciato fuori?
Cura speciale sta fuori perché non è una mia produzione al 100%: l’ho prodotto insieme ad un altro artista che è Alfonso Cheng, di Nocera, vicino Napoli. Lui ha questa vena più elettronica, che non c’entra con quello che faccio io di solito. È stato bello lavorare insieme e quel pezzo significa tanto per me perché è stato il primo approccio vero a La Cattedrale. È un pezzo che porto live con sonorità completamente diverse da quelle registrate.
Quando fai concerti che riscontro trovi nelle persone?
I live sono sempre pazzeschi. Parto con l’aspettativa di suonare davanti a dieci persone invece trovo sempre il locale pieno, la gente va in fissa e mi iniziano a seguire. Da questo punto di vista, il concerto è la parte più bella! Ho suonato di recente al Monk, che è molto figo. Per il resto ho fatto tutti locali un po’ più di nicchia anche perché piuttosto che fare un locale grande e rinomato dove il pubblico non c’entra nulla col mio genere preferisco fare posti più underground e divertirmi con quelle persone che ci sono.
Sembri molto timido: come fa un timido sul palco?
Innanzitutto, ti bevi sei birre prima [ride, nda]. Mi criticano spesso perché parlo poco sul palco, ma quando salgo sul palco lo faccio perché sono lì per suonare, ed è la cosa che più mi piace fare! Cercherò comunque di seguire i suggerimenti che mi arrivano!
Vivi a Rebibbia, com’è? È un quartiere ormai sulla bocca di tutti, per Zerocalcare.
Non ho mai incontrato Zerocalcare ma i suoi abitano proprio qui affianco a casa mia. Una volta gli ho scritto dicendogli: «Oh, sono di Rebibbia anche io, disegnami la copertina del disco!». Naturalmente non solo non mi ha risposto ma non ha nemmeno visualizzato [ride, nda].
Dai, ma suona il campanello ai suoi!
Sì, è vero, rischio un anno di galera ma ne vale la pena [ride, nda]. A parte questo, sto a Rebibbia da sette anni, prima stavo a Monte Sacro. È un quartiere molto bello, ha i suoi difetti ma sono contento che sia diventata famosa grazie a Zerocalcare. Ad esempio, c’è il comitato di quartiere che organizza un sacco di cose fighe e le persone sono molto attive politicamente. Questa è una cosa buonissima ed è la parte veramente bella di Rebibbia.
E rispetto a dove stavi prima?
Be’, Monte Sacro è un quartiere molto bello e “in”, ma non ha queste cose. È molto più milanese, in un certo senso. Manca l’aspetto popolare bello, della condivisione, che invece ho trovato qui. In questo periodo sto anche facendo un corso di ceramica praticamente gratuito organizzato dal comitato di quartiere in un posto sperduto e in costruzione, è una figata perché c’è il senso di appartenenza e la voglia dei residenti di farlo diventare un posto migliore e adatto a tutti.
Dal punto di vista musicale?
Da questo punto di vista, quando immagino Rebibbia immagino la mia cameretta. Io sto al piano terra quindi ho le grate alle finestre, quindi a dire il vero ma la immagino un po’ cupa, grigia. Per questo poi scrivo quello che scrivo.
Adesso facciamo una cosa divertente (spero). Ho cercato su Spotify gli artisti suggeriti sotto al tuo profilo. Te ne dico qualcuno e mi dai due parole per ognuno.
La prima è facile e quasi scontata perché è il tuo primo progetto: Plaza Sempione.
Oddio due aggettivi, troppo difficile. Come lo descriveresti tu [ride, nda]? Dai, direi adolescenziale e mettici tipo [ci ragiona un po’ su, nda] imponente, però non lo so, è difficilissimo.
Poi abbiamo Moci.
Ah, il mio bassista! Moci è pazzesco e bellissimo.
Lo conosco perché sta nello studio di Moci, dove anche io faccio le prove. In due parole ti dico “una” e “figata”.
Ah, fichissimo! Lei l’ho sentita coi Post Nebbia, il progetto è interessante. Ha delle sonorità incredibili.
Molto bravo, lui stava in Coltellini, la mia etichetta. Fa elettronica sperimentale e ti dico “spaziale”. Mi ricorda la scrittura di Battisti verso la fine della carriera. Quindi “spaziale” e “infinito”.