Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Kublai, alterego di Teo Manzo che dedica un intero progetto a Kublai Khan, erede di Gengis
Khan, che decide di morire suicida a causa della sua estrema solitudine. La storia di Kublai Khan si intreccia con l’emotività di Teo, e ne esce fuori un disco incredibile, omonimo, pubblicato il 4 dicembre 2020. Ne abbiamo parlato direttamente con lui.
In che modo questo disco non è un monologo?
Non lo è per due ragioni, una interna ed una esterna al disco stesso. Quella interna riguarda la natura dei testi, che assomigliano più alla trascrizione di un dialogo tra i due protagonisti (Kublai e Marco Polo), piuttosto che alla narrazione monodica di un autore. La ragione esterna è connessa alla genesi di queste canzoni, che non nascono da me solo, ma dalla collaborazione con altri. Ciò fa di Kublai, al momento, un progetto non solista.
Perché ti è così facile identificarti con Kublai Khan? Non una storia felicissima…
Censurare l’infelicità non rientra nei miei piani, anzi direi che non dovrebbe rientrare nei piani di nessun artista degno di tale nome. Kublai è un imperatore, ma dà ascolto al viaggiatore Marco Polo, che conosce il suo regno meglio di lui. Questa è solo un’immagine presa a prestito da Italo Calvino, che riassume con buona approssimazione le mie intenzioni artistiche: collaborazione, ricerca, eterodossia.
E in che modo, nonostante tutto, questo disco è anche autobiografico?
Lo è come tutto ciò che facciamo al mondo. L’amicizia a cui si allude nel disco è certamente anche qualcosa che appartiene al mio vissuto, ma le modalità del racconto non sono quelle della cronaca, bensì del sogno. È latente una certa sospensione, un’ambiguità irrisolta; in ogni caso, però, anche ciò che consideriamo autobiografico è sempre un agglomerato confuso di fatti, psiche, memoria e sentimenti. Nessuno può dimostrare di aver vissuto ciò che ha vissuto.
Quali sono i tre momenti che compongono questo disco?
L’album percorre idealmente l’arco di una notte, e nel suo svolgimento incontriamo solo due momenti di silenzio assoluto. Ciò rende possibile isolare tre movimenti: il primo è di ouverture e di presentazione dei due protagonisti; la sezione centrale è quella in cui il dialogo tra i due personaggi diventa cruciale; nell’ultima parte questo dialogo si interrompe e rimane una sola voce sulla scena.
Un anno decisamente particolare per un disco d’esordio. Com’è andato il 2020?
Per me, personalmente, meglio del 2019. Inoltre, confesso che la mia quotidianità è fatta di molte ore passate in casa a scrivere e suonare, in questo senso il lockdown non ha avuto un grande impatto su di essa. Non si può dire lo stesso per la musica dal vivo, altra parte centrale della mia vita. In ogni modo non mi piace contemperare la musica all’attualità: se un album è maturo è giusto che prenda la sua strada a prescindere dalle contingenze.
E come andrà il 2021?
Meglio, senz’altro.