Francesco Manu, questo il nome dietro il progetto KARLHEINZ, è infatti un dj e producer, nato e residente a Roma, autore di una “techno fusion”, come da lui chiamata, dal sapore minimal: una miscela di sonorità acide e scure, amalgamate da metriche e ritmicità dinamiche e coinvolgenti.
Karlheinz, il tuo nome d’arte, ci riporta al grande Stockhausen. È stato per te un’ispirazione? Come ti sei avvicinato alla musica elettronica?
Sicuramente sì, dal momento che è stato uno dei padri fondatori nonché assiomatico avanguardista della musica elettronica; oltre a rappresentare un tributo a Stockhausen la scelta del mio nome d’arte racchiude al contempo l’aspirazione e l’impertinenza di provare a eguagliarlo. Ascolto le sue composizioni con grande frequenza e resto catturato dalla sua assoluta genialità, che peraltro non sempre comprendo ma riesco a percepire. Ecco, sono davvero affascinato da questo ignoto. La cantata “Momente” credo sia l’apice del suo concetto compositivo aleatorio; va oltre lo strumento, il suono, la voce, in sintesi oltre ogni concetto. Subisco molte contaminazioni, sono numerosi i Maestri dai quali attingere e lasciarsi ispirare. La cosa più affascinante è riuscire a far dialogare mondi diversi, sotto un’unica visione; credo che le diversità siano delle opportunità. Tanti chicchi da soli non sono nulla, ancor di più se sono separati, mentre con una struttura e in un’unione formano il melograno. Avviene lo stesso per i suoni. Per quanto riguarda il mio avvicinamento alla produzione musicale, si è trattato di un cammino lento – ho impiegato due anni abbondanti prima di iniziare – e altalenante. Questo “tira e molla” è dipeso soprattutto dalla carenza di tempo; scalpitavo per mettermi davanti a una tastiera e in testa avevo tante idee che dovevano prendere forma. Alla fine non ho più potuto resistere.
Definisci il tuo stile “Techno Fusion”. In cosa consiste e come sei arrivato a queste sonorità?
“La ripetizione si basa sui ritmi del corpo, quindi ci identifichiamo con il battito del cuore, o con la marcia o il respiro” (Karlheinz Stockhausen). Non potevo fare a meno di citarlo. Amo profondamente le catene ipnotiche: sequenzer, arpeggiatori, pad, suoni profondi, miscele acide… Mi capita di ascoltare un suono costante anche per minuti e, così, di venire catapultato in un altro mondo. Sentire letteralmente le frequenze nella loro essenza. Nella mia musica le metriche Techno la fanno da padrona; ma le contaminazioni sono infinite con voci, melodie e sonorità: orientali, arabe, armene, africane soprattutto. Sto cercando di creare un mood produttivo che possa andar bene nei diversi club e che tocchi anche generi differenti, creando una fusione assoluta e con un groove che trascina fortemente l’anima.
La tua musica ha una forte componente minimalista all’interno. Quanto è importante anche il silenzio, nella musica?
Il build-up è un momento fondamentale di una traccia. Per me rappresenta l’attesa, come viene magistralmente descritta ne “Il sabato del villaggio”, ovvero quel “prima” che carica, emoziona ed enfatizza il momento clou e melodico del brano. Sicuramente le pause, con il silenzio, rompono l’istante e creano l’attesa.
La musica techno, e in generale la musica elettronica, viene da sempre considerata fredda e impersonale, quasi robotica. Come vivi questo tipo di critiche?
Senza dubbio le sonorità spesso possono sembrarlo, ma molto dipende da come sono amalgamate… Mi è capitato di suonare sintetizzatori che, a primo impatto, mi hanno fatto storcere il naso pensando fossero troppo duri; ma con il giusto volume, tonalità e LFO diventava tutto giusto e perfetto. La traccia prendeva corpo ed era fondamentale.
Fino a qualche anno fa erano quasi anonimi e oggi i producer sono le nuove rockstar. Pensi sia cambiato il ruolo della musica elettronica e dei producer?
Credo che maggiormente sia cambiato il concetto di notorietà, dal momento che oggi la fanno da padrone i social: se hai i numeri, sei forte. Eppure mi piace pensare che con le capacità arrivino i numeri… Il ruolo dei produttori fino a qualche anno fa non veniva valorizzato e riconosciuto. Ci sono molti casi di interpreti e DJ famosissimi che hanno costruito le rispettive fortune grazie a dei Producer molto capaci alle loro spalle. Quindi, con piacere, la scena si amplia anche per chi produce.
Parlaci di “Shams” e dell’HAKA Project. In che consiste e che sviluppi futuri ci saranno per Karlheinz?
Senza falsa modestia, permettetemi di dire che “Shams” è una raccolta bellissima; sono realmente innamorato di queste sette tracce, ognuna di loro rappresenta un viaggio. Su tutte, la mia preferita è “Yokil” che percepisco come la più rappresentativa, per due ragioni: sia per le scelte compositive sia per aver attinto al discorso “I have a dream” di Martin Luther King del 1963, davanti al Lincoln Memorial di Washington, al termine della marcia di protesta per i diritti civili. Inoltre questo EP, realizzo da HAKA Project, è stato il primo lavoro pubblicato in team, per la label internazionale “Cafe de Anatolia”. Con Haldo siamo in sintonia e ci stiamo divertendo che le produzioni continuano. Tre di queste sono state scelte per la raccolta “Deep Formentera”, che uscirà a breve.