– di Luca Boetti –
“Rinascimento” è un album che mi ha fatto sentire inadeguato.
Intendiamoci, non che questo sia una novità: quella dell’inadeguatezza è una sensazione che mi accompagna dai tempi dell’asilo, quando frequentavo una di quelle strutture delle suore in centro a Milano e tutti i miei compagni vivevano in case da Mtv Cribs all’ombra del Duomo. In quell’asilo ci ero finito per caso, e andare alle feste dei miei compagnucci era per me una tortura psicologica. Già a quattro anni mi sentivo fuori posto, come se il fatto di avere le scarpe sporche e il naso gocciolante fosse un’orribile onta sociale (e per i miei mini-aguzzini forse lo era, visto che indossavano tutti i giorni la CAMICIA già in età prescolastica).
Johan Sebastian Punk, al secolo Massimiliano Raffa, ha fatto nuovamente di me un piccolo moccioso timido e ritroso. Ascoltando il suo ultimo EP mi sono chiesto chi fosse questa persona così tormentata eppure così resiliente, capace di farmi digerire nei suoi pezzi citazioni a Emil Cioran quasi come fossero gocce di valeriana. Dopo aver ascoltato il suo disco ho deciso di scoprire di più sul conto di JSP, incuriosito dal suo fascino decadente e timido: ho trovato una sua intervista di inizio 2018, nella quale si presenta come una rockstar tormentata o un compositore con la tubercolosi. Suona praticamente qualsiasi strumento, peraltro da autodidatta, insegna musicologia in un master allo IULM (o insegnava, non so se nel frattempo ha cambiato mestiere ed è diventato non so, un pirata cinese del pacifico) ed è, oltretutto, un critico musicale (uno di quelli capaci e preparati, mica come me).
La novità rispetto al passato è che, in “Rinascimento”, JSP canta interamente in italiano. Le sue precedenti uscite infatti erano tutte in inglese, e sono state (a torto o a ragione, decidete voi) tacciate di eccessiva inaccessibilità anche per questa ragione. Io sono dell’opinione che la lingua, almeno in questo caso, non c’entri nulla. JSP è infatti un artista ostico a prescindere: anacronistico, scava nella depressione grunge e nei ritmi e sonorità delle band post-punk americane, poi cambia e la musica diventa dance anni ’80 e poi ancora alternative rock. In generale, pur essendoci così tanti generi diversi in una sola produzione, la miscellanea di sonorità non cozza, ed è anzi insospettabilmente piacevole. Posso però capire come un ascoltatore “generico” si senta frastornato dall’autorialità estrema presente in questo album.
Una menzione va sicuramente fatta ai testi delle canzoni: le liriche raccontano il senso di esclusione, parlano di nichilismo e rassegnazione, di insonnia e insoddisfazione. Le tematiche del disco riflettono una retorica molto triste e malinconica, pur accompagnata da un incedere festoso ed entusiastico nella maggior parte del tempo di ascolto. Nei suoi testi JSP procede senza avere una meta precisa se non raccontare l’autodistruzione (in questo “Risollevato” è una traccia inarrivabile), come un pirata che fischietta allegro nonostante stia per buttarsi dalla passerella fra le fauci degli squali.
Il senso di inadeguatezza infuso dall’ascolto di quest’album è piacevole e sorprendente. Poche volte un artista ha deciso di mettersi a nudo in questo modo senza paura del giudizio, prima degli altri ma poi soprattutto di se stesso, e fin dai primi ascolti si percepisce il tentativo di esporsi senza alcun filtro. Forse il rinascimento di JSP sta proprio in questo senso di liberazione sovrastrutturale, capace di farmi tornare a quei momenti in cui mi sentivo fuori luogo e durante i quali, con il senno di poi, avrei dovuto sbattermene. E dovrei sbattermene anche ora e mettermi a nudo, cercando un rinascimento come ha fatto JSP.