– di Giacomo Daneluzzo –
Lo scorso 8 novembre è uscito per Dischi Sotterranei dei giorni liberi, del tempo perso, il nuovo album di Jesse the Faccio, cantautore originario di Padova. dei giorni liberi, del tempo perso arriva dopo tre anni anni dall’uscita discografica precedente, cioè l’EP Le cose che ho, uscito a novembre 2021, che a sua volta faceva seguito ai suoi primi due album: I soldi per New York (2018) e VERDE (2020). I suoi lavori sono caratterizzati da una scrittura diretta ed essenziale, estremamente urgente ed espressiva, e da un approccio alla musica internazionale e lo-fi.
Quest’intervista è una chiacchierata che ho avuto con Jesse quando a novembre ha presentato dei giorni liberi, del tempo perso alla Santeria Paladini 8: l’ho incontrato mentre stava facendo scritte e disegni sulle mascherine per gli occhi che, al momento del listening party, avrebbe distribuito a tutti i presenti, creando un’atmosfera in cui la musica potesse essere l’unica protagonista. Una trovata molto semplice, ma capace di creare una certa magia. E penso che questa sia una buona sintesi anche dell’approccio musicale di Jesse, che pure si è evoluto nel tempo, diventando sempre più consapevole e maturo.
Ecco che cosa mi ha raccontato.
Ho pensato di iniziare quest’intervista con una domanda stupida. Nel comunicato stampa parli della storia d’amore tra te e la Musica, con la M maiuscola. Eppure in quest’album sei passato a scrivere i titoli delle canzoni tutti in minuscolo. Come mai questa scelta? Che cosa significano le maiuscole/minuscole, che pensieri ci sono dietro?
Non ne sono sicuro. Quando ho scritto questi titoli ho pensato subito che scrivendoli tutti in minuscolo mi piacevano di più. Il primo è stato guardami, guardami e mi piaceva molto l’effetto della punteggiatura su un testo interamente in minuscolo, come accade anche nel titolo dell’album dei giorni liberi, del tempo perso. Poi c’è un altro elemento: nel 2020 ho fatto il mio secondo album, VERDE, che era tutto in maiuscolo, urlato: questo è un disco più sussurrato, il che bilancia anche un po’.
Quando parlo della mia relazione con la Musica invece ho scelto di usare l’iniziale maiuscola perché per il ruolo che ha nell’album non può essere in minuscolo.
La Musica, questa figura che nel disco viene chiamata anche Liberty, è intesa in un senso ampio, quasi ideale. Allo stesso tempo è anche nel sottofondo quando parli d’altro. Hai voglia di approfondire il tuo rapporto con lei?
Questo disco è stato scritto in un momento in cui la mia relazione con la Musica era leggermente in difficoltà. Avevo paura di non star dando abbastanza. Non ero più sicuro che fosse ciò che volevo fare nella vita. Mi sono trovato a pensarci davvero come se stessi pensando a una persona vicina a me. E nelle mie riflessioni sono arrivato a capire che è la cosa a cui tengo di più al mondo. Il processo di scrittura è stato interamente basato sulla mia relazione con lei in quel periodo.
Fare altri lavori e cercare di essere una persona più “normale”, nel senso di svegliarsi e andare in ufficio invece che suonare tutti i weekend eccetera, era una prospettiva che avevo in mente. Però poi mi sono guardato allo specchio e ho capito che fare musica per me è tutto. E ho sentito il bisogno di parlare di questa storia d’amore. E come in molte storie d’amore c’è stato un colpo di fulmine all’inizio, che è durato anni, ma per far funzionare le relazioni bisogna essere capaci di rinnovarsi.
L’EP Le cose che ho è uscito ormai tre anni fa. Immagino che in questo tempo il vostro rapporto avrà anche attraversato fasi diverse.
I primi due dischi sono stati fatti molto di getto, erano esigenza pura. L’EP è il frutto del periodo della pandemia e di una vera relazione che ho vissuto. Per scrivere dei giorni liberi, del tempo perso invece ci è voluto molto più tempo. Ho preso un po’ dai miei lavori precedenti, ma penso che la scrittura sia cambiata molto. Rispetto al passato sento di dover parlare in modo più “generico”: non sto scrivendo per qualcuno in particolare. E per farlo ci sono voluti questi anni.
Forse semplicemente sono cresciuto, come tutti noi. Mi sento più grande e credo di essermi quasi scordato che anche la Musica cresce insieme a me. In questi anni ho capito che effettivamente è centrale per me e per la mia vita e che voglio che cresca insieme a me mentre io cresco come essere umano.
Ascolti ancora le tue vecchie canzoni?
Sì, mi capita di ascoltarle soprattutto quando sono vicino a delle nuove uscite. Dopo un po’ che lavoro a qualcosa e l’ascolto continuamente voglio ascoltarmi le cose precedenti per sentire che cos’è cambiato e quanto. Alcune cose sono molto legate tra loro, sono rimaste simili, altre per niente.
Comunque ascolto tutto con piacere, sono sempre molto soddisfatto. Questo vuol dire che anche il me di cinque, sei anni fa, aveva qualcosa di “giusto”, almeno per me. È bello non pentirsi del passato e rispettarlo. Credo che non sia scontato, soprattutto per una persona come me, che sono molto fan del presente, più che del passato e del futuro.
Eppure un tema centrale di questo disco è proprio il tempo e il suo scorrere. È un concetto che torna tantissimo. È qualcosa che avevi in mente di mettere nel disco o è uscita in modo spontaneo?
È vero ed è una cosa voluta solo in parte: è stato tutto completamente naturale: passo un’altra volta, per esempio, è un testo che ho scritto tantissimo tempo fa, ai tempi del COVID, prima dell’EP. La mia scrittura è super condizionata dal tempo che passa, che è un po’ l’unica “dipendenza” di cui non possiamo liberarci: fare le cose in determinati orari, ma anche l’invecchiare, il crescere.
Anche in quest’intervista è uscito più volte questo tema.
Sì, esatto. Il tempo è proprio uno dei concetti centrali, per me, è una delle cose a cui penso di più. Tutto è collegato al tempo. Non ho deciso a tavolino di mettere questo fil rouge in tutti i pezzi, ma quando è successo me ne sono accorto e ho pensato: «Forse tutto questo progetto che sto portando avanti ha ancora più senso di quanto avessi pensato».
E poi c’è un’altra questione: questo è un disco a cui ho lavorato nel mio tempo libero, nei day off, i giorni liberi dal lavoro. E da qui viene il titolo. Ora non è più così, ma mentre lo scrivevo ho fatto dei lavori non musicali, per necessità ma anche per quel bisogno di cui parlavamo prima di avere una quotidianità “normale”: la routine ha sicuramente dei lati positivi, ma trovandomici ho sentito il bisogno di trovare una via d’uscita. Per questo parlo di tempo “perso”: non so se sia una caratteristica del nostro paese, ma la figura dell’artista non riesce a essere qualificata come un effettivo lavoratore. Stare a casa a pensare alle mie canzoni fa parte del mio lavoro, eppure mia madre pensa che sia tempo perso, buttato via. Quest’album, quindi, è qualcosa che ho creato proprio nel tempo perso: se l’arte non è lavoro il tempo dell’arte è tempo perso.