Jacopo Incani, la mente dietro a Iosonouncane, dimostra grande maturità e un pizzico di intraprendenza nel voler portare sul palco il suo ultimo lavoro, “DIE”. Chi ha già sentito l’album, probabilmente in molti visto il pubblico della serata in questione, si sarà accorto della complessità e della irripetibilità del suono sprigionato; e allora, l’ascoltatore più attento, si sarà domandato come si può portare live un disco del genere senza snaturarlo. La risposta, che ci viene da questo tour, è semplice: non si può.
DIE è un lavoro innovativo nel panorama italiano, qualcosa di molto diverso dal prodotto medio. È questa sua innovazione però a tenerlo troppo legato allo studio di registrazione. La maturità sopracitata si riferisce alla consapevolezza che, riempiendo il palco di strumenti, o peggio di musicisti, non si riuscirebbe comunque a riproporre il sound e le atmosfere del disco; volente o nolente, Iosonouncane propone un tour acustico.
Da un po’ di tempo a questa parte il freddo si sopporta meglio a Roma. L’onore di aprire la serata, organizzata da l’Associazione di Promozione Sociale C’MON!, spetta ad Indianizer e Io Non Sono un Botge in Sala Camini (sala pub chiamata così perché riscaldata a legna) dove si erano accalcati i primi arrivati. Poi, per le 23.00 la sala concerti del Monk apre: tra vecchia guardia che lo segue dai tempi di “La Macarena su Roma” e nuovi numerosi fan rimasti ipnotizzati dal nuovo disco, la sala concerti è decisamente affollata. Un successo di pubblico e critica unanime quindi, ottenuto tutto in meno di un decennio di attività sulle spalle.
Peccato che il pubblico italiano si riconfermi, anche in serate del genere, cafone e rapito in un chiacchiericcio assiduo. Per colpa di questo bisogno impellente del pubblico, proveniente sopratutto dal fondo della sala, di parlare fra un brano e l’altro, e spesso anche durante l’esibizione dello stesso. Senza contare che per invitare al silenzio si faccia ancora più rumore sopra lo stesso brusio di sottofondo. Sembra così di essere ad una esibizione da pub, dove chi sta davanti gode del silenzio degli interessati, mentre man mano che ci si allontana dal palco diventano più impellenti gli affari propri degli altri spettatori, rigorosamente da raccontare a voce alta così da farsi sentire dall’ascoltatore e dintorni. Peccato che né la location e né la tipologia di live si prestassero a giustificare un simile comportamento di pubblico e a rimetterci è stata l’esibizione che, a parte ciò, è stata impeccabile.
Il duo sul palco, composto da Jacopo alla chitarra accompagnato dalla voce femminile di Serena Locci, non fa una pecca. Per alcuni brani la trasposizione acustica non pesa sul risultato finale, visto che il corpus centrale di DIE è pressoché acustico, basti pensare a “Stormi” e “Buio” ma anche all’album precedente. Nessun problema tecnico, tranne la chitarra che andava riaccordata periodicamente, ma che nel complesso non ha rappresentato un evidente disagio, regalando al pubblico un’ora di concerto pulita e apprezzabile.
Eppure, nonostante la trasposizione acustica non dovrebbe risultare ostica,c’è qualcosa manca e alla lunga questa mancanza si fa sentire. Bisogna dire che purtroppo il risultato finale è troppo asciutto e piatto, rinunciando a quel flusso di suoni che va di pari passo con chitarra e voce per andare così a definire una sostanza molto più enfatica e personale. Si vanno a perdere insomma quegli elementi che caratterizzavano il lavoro come sperimentale, lasciando solo una sovrastruttura cantautorale che da sola però non basta a realizzarlo.
DIE quindi in questa sua trasposizione live acustica ne esce appannato. L’esibizione non perde niente e Jacopo Incani si dimostra comunque un musicista all’altezza delle aspettative; ma quello sul palco non è l’album del 2015 che molti erano venuti a sentire e ne viene proposta una versione troppo flebile. Un suono simile sfugge alle categorie convenzionali e stabilisce la qualità e la singolarità del lavoro, mentre un live acustico finisce per lasciare solo l’osso del lavoro. Una buona esibizione che tuttavia non rende giustizia all’album.
Davide Cuccurugnani