Nel 2015, quando hai pubblicato il tuo secondo lavoro, “DIE”, è uscito “Mainstream” di Calcutta. Sono due dischi quasi agli estremi di un mondo discografico. Oggi, sei anni dopo, quell’indie è diventato itpop. In che mondo è uscito invece “Ira”?
In realtà, c’è da dire che tra il lavoro di Edoardo e il lavoro degli epigoni c’è uno scarto enorme. Quello che Edoardo scrive è molto lontano da quello che faccio io. Detto ciò, è innegabile che lui sia molto bravo a fare quello che fa. E lo fa con un sano menefreghismo nei confronti del dover essere uguale a se stesso o del dover piacere a tutti i costi. Lui ha aperto un filone redditizio, e come tutti i filoni redditizi ha attirato un sacco di mosche. Quello che Edoardo fa è ben diverso da quello che fanno gli altri. Quello che gli altri fanno è stato asciugare enormemente un certo tipo di estetica e di discorso, per poterlo mettere in canali commerciali che necessitavano di materia prima. Questi canali sono quelli della musica leggera italiana, tanto che non c’è più quasi alcuna differenza tra le porcherie che senti in tv e le porcherie che senti dal vivo in giro, in un circuito che prima veniva chiamato indipendente, ma che di indipendente ha veramente molto poco, nel momento in cui i soldi non vengono messi dagli indipendenti. Detto ciò, anche in questo caso io continuo a fare la mia cosa, imperterrito. Sono lucido per rendermi conto del mercato e del fatto che quella è musica leggera italiana.
Cos’è cambiato, allora?
Viviamo in una fase particolare, probabilmente qualche anno fa coloro che producono, distribuiscono e vendono la musica leggera, si sono ritrovati a corto di autori. C’erano un sacco di nomi usciti dai talent, che sono dei contenitori vuoti, e probabilmente gli autori della vecchia guardia che non erano più in grado di scriversi musica da soli sono andati a chiedere aiuto dove c’erano coloro che le canzoni le scrivono, quelli del mondo indipendente. Questa cosa ha aperto degli spazi, dove tanti hanno cercato di infilarsi e alcuni lo hanno fatto e ci sono riusciti con grande eleganza. La stragrande maggioranza, no. Ma non è nel mio mondo, né negli ascolti, né nelle mie frequentazioni. Non è il mondo delle persone con le quali io lavoro, dei musicisti che sono con me, dei tecnici. Non ci frega nulla di tutto ciò. Rimane il fatto che siamo abituati a ragionare usando come parametro di riferimento quello che è il mondo musicale italiano, ma l’Italia è un Paese piccolo e il mondo musicale italiano è piccolissimo, molto autoreferenziale, che si autoalimenta e si autosostiene- L’Italia è un Paese che rende ancora possibile una baracconata come Sanremo. Evidentemente ci sono delle ragioni per le quali quella cosa lì è ancora sostenibile. Se si guarda un attimo lontano, vediamo che è pieno di grandi musicisti che pubblicano anche opere rischiose, ampie, che non cercano a tutti i costi i favori del mercato, quindi forse dobbiamo iniziare a ragionare in maniera un po’ diversa, tutti noi, e non assumere solo noi stessi come punto di riferimento.
Se Calcutta ha creato quegli epigoni dell’itpop, pensi di aver creato anche tu un filone, di avere degli epigoni a tua volta? C’è qualcuno secondo te adesso che ha appreso questa lezione in Italia?
Ho avuto la fortuna di incontrare giovanissimi musicisti che condividono una certa attitudine. Uno su tutti è Vieri Cervelli Montel, il musicista, molto più giovane di me, che ho voluto aprisse diversi miei concerti quest’estate. Non voglio dire che sia un epigono perché non lo è, non mi assumo neanche la responsabilità di dire di aver influenzato con il mio lavoro il suo, ma è uno degli artisti che ho avuto la fortuna di incontrare in questi anni, e coi quali sto lavorando, che ha una attitudine che io a mia volta, da fan dei Verdena fin da ragazzino, ho probabilmente preso dai Verdena stessi. Semplicemente, interessarsi di musica e occuparsi di musica e tenere ai margini o depennare tutte quelle stronzate di contorno. Sembra un’ovvietà, ma in realtà sono pochi a farlo. Pochi musicisti si occupano di musica in Italia in questo momento.
I tuoi ultimi due album vengono considerati musica sperimentale, addirittura progressive. Come ti poni in questo ambiente, che cosa sono oggi la musica sperimentale e il progressive?
Bella domanda, non so se sono in grado di rispondere perché comunque è un quesito che ci si pone da sempre. Io credo che quello che faccio sia pop. Io sono un fanatico del pop, lo conosco molto bene, mi piace tantissimo il pop. Mi piace nel momento in cui è un terreno estetico di sintesi di esperienze altre. Il pop non potrebbe esistere e non potrebbe rinnovarsi se non esistesse una galassia infinita di musicisti che si ritrovano a suonare magari davanti a trenta persone o meno. Quello che faccio non è musica sperimentale tout court, ne ascolto tanta e fa parte anche delle mie corde, ma quello che mi pare io faccia è portare avanti un processo di sintesi di tante che cose che magari sono confinate al mondo sperimentale o sono esperienze di musicisti che suonano per platee molto ridotte. Forse è progressive nella forma, nell’attitudine. Certamente io il progressive l’ho ascoltato e lo ascolto. Quell’impostazione “settantiana” ce l’ho, indubbiamente, che sia Kraut o che siano i King Crimson. Non so se sia progressive, perché comunque ci sono tantissimi brani in “IRA” che non hanno alcuna vicinanza con il progressive, però effettivamente nel tema finale dell’album, in “cri”, molto largo col mellotron si possono trovare certe inquietudini alla King Crimson di “Red” e di quella fase lì.