– di Michela Moramarco –
Giorgio Canali e la sua narrazione schietta sono tornati con un doppio album dal titolo Venti, l’ottavo con i Rossofuoco. L’album è nato in un anno (ma come si può definire il 2020?) che ha portato la collettività, volente o nolente, alla riflessione individuale. E questo malessere esistenziale, misto a incertezza e venato di nostalgia, si percepisce in alcuni brani come “Eravamo noi” o “Wounded Knee”. Ma non manca un timido slancio di speranza presente in “Come quando non piove più”. In questo album c’è pathos ma non patetismo. E c’è rassegnazione in senso nichilistico. E c’è la notte, la luna, i falò. I suoni sono indubbiamente elaborati e, per quanto sia un album impegnato e impegnativo, è un ascolto obbligatorio. L’album Venti richiede una lettura a strati, infatti vi sono nascosti riferimenti alla canzone d’autore anni Sessanta-Settanta. Dunque, Venti è un pungolo, che vuole probabilmente spiegare a modo proprio come si vive, a chi pensa, forse, solo a sopravvivere.
Ne abbiamo parlato con Giorgio Canali.
Il titolo dell’album è Venti, inteso come l’anno particolare che abbiamo appena trascorso o come venti canzoni. Può essere inteso anche come il plurale del vento?
Sì, in realtà sono tutti questi “venti” messi insieme. Mi piace giocare con le parole in maniera stupida e ‘stavolta mi è sembrata ancora più stupida del solito, quindi ho scelto questo modo.
Per quanto riguarda quest’album, all’inizio della fase di composizione c’era un intento di nascondere i riferimenti all’attualità. Ma poi non è stato proprio così. Come mai?
All’inizio non avevo voglia di credere che quello che stava succedendo fosse qualcosa di reale; sembrava piuttosto un brutto sogno. Ma poi, andando avanti, abbiamo deciso di non chiudere l’album a dieci pezzi e poi ci siam detti: “Facciamo un doppio album”. Poi è partito l’embolo (ride, ndr). Dunque, dopo una decina di pezzi in cui quasi si ignorava quello che stava succedendo, diventava difficile per me non fare dei riferimenti. Più si andava avanti più ‘sto incubo non era più così tanto onirico, ma un qualcosa di reale. Quindi, è andata così.
Parlando dei brani, “Nell’aria” ha un testo che dice: “Sapevamo già tutto…”, un po’ in senso rassegnato. Un po’ come una narrazione neorealistica. Come è nato questo brano?
In generale i pezzi sono nati in una maniera a noi usuale, nonostante fossimo ognuno a casa sua. Di solito partiamo improvvisando. Poi si struttura il brano insieme alle parole, con tutti i tagli e i missaggi diversi. Però le parole, devo dire, arrivano sempre per ultime. Per questo brano è andata così, con una mia idea di chitarre, poi si sono aggiunti gli altri, la canzone poi ha girato. Si tratta di uno degli ultimi brani scritti, non ha avuto il testo per un po’. Rientrava fra i secondi dieci brani. Non saprei, forse per una questione sonora. Si tratta di uno dei pezzi che mi piace di più.
Il brano “Inutile e irrilevante” strizza l’occhio al punk dei Clash, dal punto di vista delle sonorità – ma nel significato, servire è inteso proprio come concetto di utilità/inutilità?
Il senso è proprio quello di utile/inutile. Non a caso il brano dice “non conti un cazzo, non servi più”. In quel brano sono citate una serie di cose come se fosse una lista della spesa che poi non servono a niente.
Il brano “Wounded Knee” racconta un po’ la sconfitta dentro, testimoniata dal lamento della chitarra elettrica. Ma da questa sconfitta raccontata, c’è redenzione?
No, quando sei sconfitto sei finito e basta. L’araba Fenice è una cosa mitologica. Come dico in un altro brano, se arrivi a toccare il fondo, magari puoi anche avere un fondo di riserva. Sono giochi di parole alla fine. Obbiettivamente parlando, tu vedi una possibilità di riguadagnare quello che si è conquistata la generazione prima di me, nel secondo dopoguerra, quelle stesse cose che ci vengono sottratte, massacrate? La sconfitta è sconfitta. Se si fosse iniziato a studiare la storia, non per prendere trenta all’esame, ma per ragionare su quello che è già successo e che può succedere di nuovo, forse non ci ritroveremmo a questo punto.
Ci sono dei brani strutturalmente un po’ “zoppicanti”. Mi riferisco a “Meteo in cinque quarti” e “Canzone sdrucciola”. Mi piacerebbe una spiegazione di queste scelte di stile?
In passato ho lavorato spesso con i tempi dispari, soprattutto ai tempi del CSI, gruppo rock sperimentale anni ’80. Il dispari questa volta, per “Meteo in cinque quarti” è partito dal un idea sul basso di Marco, che mi ha sparato questo giro in 5/4. E poi è andata così, ho detto “Ci sto, eccome se ci sto!”. Invece “Canzone sdrucciola” sembra un pezzo zoppicante ma non lo è. È un tranquillo 12/8 solo con degli appoggi un po’ zoppicanti.
“Rotolacampo” mi ha fatto pensare un po’ a Bob Dylan e un po’ a Cesare Pavese. Come è andata per questo brano?
Quel brano è venuto fuori un po’alla cantautore, chitarra in mano e, una volta registrata, ho messo in fila le parole. Sono molto fiero di questo brano. Mi piace molto anche da suonare. Il brano mi è venuto in mente ascoltando “Nothing was delivered” e ho pensato, lo voglio fare anche io un pezzo così, cazzo! Che poi non c’entra niente, però l’atmosfera è un po’ quella. Se mi chiedessero cosa voglio fare da grande, direi che vorrei essere Bob Dylan.
Concludiamo, lei si sente un artista maledetto?
No, maledetto no. Maledetto forse da qualcuno. Forse dall’anagrafe. Però, no. E mi metto a piangere se mi dai del lei.