• Di Giacomo Daneluzzo
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“Il Cubo è, allo stesso tempo, un simbolo di semplicità e complessità”.
Così in un intervista del 2012 Ernő Rubik, inventore del celebre cubo, dà una spiegazione del sucecsso del rompicapo che l’ha portato alla fama.
Come il solido platonico da cui prende il nome, Il Cubo di Rubik Monocromo, gruppo milanese nato nel 2007 e passato per varie fasi prima di raggiungere l’attuale formazione di sette elementi, racchiude nel suo lavoro una complessità per quanto riguarda la ricerca compositiva di musica e testi, ma anche la semplicità di fruizione del risultato finale.
A nove anni di distanza dal primo album “Quarantatré miliardi di miliardi di possibili combinazioni (in una sola mossa)” pubblica nel novembre 2018 “Picnic al mare” (LaPop), la cui gestazione è durata circa due anni: dal 2016 hanno fermato l’attività live per dedicarsi interamente alla sua realizzazione.
L’album, inaspettatamente, si apre con l’unica traccia strumentale, che, ancor più inaspettatamente, è anche la title track, così da mettere subito in chiaro il ruolo centrale dell’aspetto più prettamente musicale del progetto: la grande varietà di strumenti utilizzati è uno dei punti forti della band, che a melodie cullanti, a tratti quasi ninnananne, associa dei testi cantilenanti costruiti per associazioni di immagini e suoni, in cui è ricercato un effetto non solo di significato ma anche sonoro delle parole utilizzate (“Mi piace il suono che fa”, ripetuto in loop in “Ridicole”, come una sorta di dichiarazione poetica e ad un tempo mantra dondolante). L’immaginario è quello della quotidianità, evocato da immagini e riflessioni, talvolta amare (“Dio non ha il controllo su quello che succederà, come potrei mai averlo io?”, cantato sulla rilassante chitarra acustica della ballad “Oggigiorno”, che suona come un bizzarro incontro tra Elliott Smith e i Bon Iver), talvolta più tendenti alla critica dell’ipocrisia di certi meccanismi della società (“Con un cuore così bianco da farci vomitare e un altro lieto fine sempre uguale, il vostro cuore è così bianco da non essere normale, sapete solo stare fermi a guardare”, da “Un cuore così bianco”, con una commistione di piano e archi da un lato, chitarra elettrica e batteria martellante dall’altro).
Un album elaborato elegantemente, con dietro una grande ricerca sonora e una certa originalità anche nei testi, che se da una parte si rifanno alla nuova scuola di parolieri che procedono nella scrittura per associazioni di immagini e riferimenti al quotidiano, dall’altra la elaborano in una forma posata ed elegante, che riduce il rischio di cadere nel banale o nel “già sentito”.