Sono cresciuto, come voi, con il mito della rock star. Fama, successo, fiumi di donne, tanti soldi da non saperli contare, camere d’albergo distrutte e folle oceaniche ad ogni spostamento. Sono cresciuto sognando i concerti dei Led Zeppelin, dei Doors, fans osannanti, alcol e droghe. Sono cresciuto credendo nell’iconografia del musicista, portatore sano di cultura, destabilizzatore sociale. Sono cresciuto sognando di diventare parte di quel paradiso. Ho iniziato a suonare ed improvvisamente sono riatterrato nell’Italia odierna.
Non voglio fare discorsi del tipo “la musica di una volta”, non credo che il rock sia morto, sono anzi convinto che la musica, come ogni cosa in questo mondo, sia oggetto di un continuo mutamento, un flusso che si mescola e rimescola in continuazione, con punte di geniale innovazione, certo, ma mai troppo distante da un qualcosa di già sperimentato, per chi ha voglia di andare ad indagare. Una cosa è certa, arricchirsi di musica è oggi cosa per pochi, soprattutto nel nostro paese.
Non amo particolarmente gli esterofili, non credo che all’estero si faccia musica migliore; c’è certamente però un diverso modo di vivere la musica da parte di chi la ascolta e di chi la gestisce. Qui ci sarebbe da approfondire con fiumi di parole, ma lo lascio volentieri ad altre rubriche di questa rivista. Mi limito a precisare che in nessun modo si ha in questo articolo la volontà di demonizzare il nostro paese per partito preso.
In Italia oggi ci sono tre fasce di artisti in ambito musicale: in alto i “grandi artisti”, perlopiù mummie da esportazione, banali e fiacche copie di se stessi che riempiono stadi solo col proprio nome. In basso ci siete voi, musicisti emergenti che arrancano tra un concerto non retribuito ed un disco che avete pagato lavorando in nero in un pub. In mezzo c’è il Tritacarne discografico.
Ma cos’è il Tritacarne? È quel meccanismo discografico attraverso il quale vengono generati e “distrutti” artisti in maniera ciclica.
Un esempio evidente del lavoro del Tritacarne è il talent show, l’Innominabile, considerato dalla maggioranza dei musicisti un demone che fagocita cultura. Il perché di tanto disprezzo è chiaro, in nessun modo uno show televisivo che fa della competizione e del turpiloquio la sua “arma di distrazione di massa” potrà dare vero risalto al talento, il che infastidisce non poco chi la musica la vive dal di dentro, anche quelli che di talento in realtà non ne hanno poi molto. Ma qual è il danno più grande di cui il talent show ci fa “dono”? Il problema non risiede soltanto nella mancanza di talento dei vincitori (che oserei chiamare vinti), è che questi di talento magari in alcuni casi ne hanno anche, ma non hanno ne la possibilità né il tempo di dimostrarlo. Un giovane artista partecipa al programma, canta, piange, si becca insulti, ripiange, ricanta, vince. Poi fa un disco (straripagato con i ricavi che il programma ha generato), acquistato dalla solita manciata di pubblico che ancora esce dai megastore con un cd in mano; qualcuno fa Sanremo, qualcuno lo vince anche e poi la luce si spenge.
Quando la musica passa dalla tv è la tv a dettar legge, e la prima regola della tv è che non esisti se non sei sullo schermo. Ecco allora che come non esistevi prima di mettere la faccia davanti alla telecamera, così torni a non esistere quando la telecamera si spegne. Il problema non è allora avere talento o meno, perché in questo gioco non è necessario averne: basta un buon cantante da karaoke.
Facciamo un passo indietro, dicevamo delle rock star. Proprio mentre sto scrivendo nei cinema di tutto il mondo viene trasmesso l’evento rock di questo decennio, la reunion dei Led Zeppelin. Nulla da dire, la più importante band della storia, forse secondi solo ai Beatles, ma se nel 2012 l’Evento è un concerto svolto cinque anni fa da una band che ha ufficialmente chiuso i battenti nel 1980 un motivo ci sarà.
Mia nonna direbbe che una volta le cose venivano realizzate per durare nel tempo, questo è il punto. Il mercato discografico dovrebbe promuovere la qualità ed il talento non solo per un fatto culturale, ma proprio per proporre ai suoi clienti un prodotto destinato a durare nel tempo. Il Tritacarne fa l’esatto opposto: prende un prodotto banale, lo spinge al massimo per convincere i propri clienti della sua qualità e quando ne ha tratto i guadagni sperati lo abbandona lasciandolo morire in un “ti ricordi quello là… come si chiamava?”.
Difficile capire se un tale meccanismo sia stato studiato per far fronte ad una crisi nera come quella del mercato discografico o se invece ne sia una delle cause, certo è che ogni nuovo album prodotto dal Tritacarne è come un colpo di defibrillatore ad un sistema ormai morente.Altrettanto evidente è che per le grandi case discografiche questa rappresenta, secondo una logica che sfugge al sottoscritto, la Soluzione ai loro problemi.
Come si introduce una promettente band emergente in questo discorso? Non si introduce! Il Tritacarne risparmia la band (intesa come nucleo di musicisti che uniscono i propri sforzi in un progetto originale) e questo, permettetemi, mi fa tirare un sospiro di sollievo.
La band non è “televisiva”, ringraziando il cielo.
Essa si muove invece in una selva di situazioni, personaggi ed eventi che comunemente chiamiamo underground e che non ha nulla a che fare con il mercato discografico come è stato descritto fin qui, vive di regole diverse e diverso è il modo col quale ci si rapporta.
Trovare il proprio posto in questo marasma è complicato, a volte snervante o addirittura avvilente, è il mondo della musica emergente, conoscerlo è alla base di un processo di crescita artistica e propedeutico alla realizzazione di un progetto. Alla scuola di musica avete imparato a suonare il vostro strumento, ma per dare corpo alle vostre idee dovete sapere come muovervi, come rapportarvi con le figure che vi troverete davanti e quale strada sia la più adatta a voi e al vostro progetto.
Se la crisi del mercato discografico porta dei vantaggi, uno di questi è proprio la possibilità di potersi svincolare da esso, in una scena musicale che sempre di più si avvicina ad una totale libertà espressiva, senza tendenze studiate a tavolino, senza indagini di mercato o studi di settore, ognuno fa ciò che vuole, nel modo che ritiene opportuno.
Francesco Galassi
ExitWell Magazine n° 0 (gennaio/febbraio 2013)