– di Lucia Tamburello –
Il Muro del Canto, nell’ultimo lavoro pubblicato il 30 ottobre per Goodfellas, passa in rassegna un’ulteriore sfaccettatura della stessa società che, “da zozza”, si fa malata. Questa volta, però, il punto di vista è diverso e molto più vicino alla problematica: partendo da una crisi interna, si arriva alla stesura di un album che racconta, in maniera trasparente ma non autoreferenziale, il dolore e i diversi modi di reagire ad una sofferenza. La mejo medicina trova un’ottima via di mezzo tra una narrazione speranzosa e stucchevole e un racconto nichilista e catastrofista del panorama contemporaneo. Dopo aver “messo a nudo” per molti anni i protagonisti delle proprie storie, Il Muro del Canto “razzola bene” predicando il proprio insaziabile desiderio di autenticità e i rimedi alle proprie pene. L’amore si trasforma così, in nome e fatto, ne La mejo medicina che, una volta condivisa, da rimedio personale, si trasforma in un analgesico per una collettività. Ce lo spiega meglio la voce della band Daniele Coccia Paifelman.
Entriamo subito nel vivo del disco con il suo titolo e concept: La mejo medicina. Come al solito, utilizzate un linguaggio molto diretto e appare chiaro chi siano i malati e quale sia la cura; ma si tratta di un farmaco ad ampio spettro o di uno che cura un male preciso? Il racconto delle vite degli ultimi è scandito in qualche modo nel corso della vostra discografia o tendete a raccontare spontaneamente ciò che vi circonda senza particolari selezioni?
Abbiamo affrontato una crisi, come capita a chiunque nella vita quotidiana. Ci siamo rimboccati le maniche, convinti che rimettere la musica al centro del nostro sogno comune fosse la terapia giusta, e così abbiamo scritto un disco in tempi record. La nostra migliore medicina è stato l’amore per Il Muro del Canto. Ancora una volta, abbiamo raccontato prima di tutto noi stessi: siamo noi gli ultimi di cui parliamo. Usiamo il plurale per rivolgerci alla stragrande maggioranza dell’umanità, costretta a subire un sistema in cui il 90% vive con molto poco, mentre il restante 10% si gode un lusso sfrenato.
«Cor tempo pure tu te sei imparato come funziona er monno e sei sparito, er sogno nostro t’è sembrato poco, t’è sembrato er vizio de ‘n fallito»: come sta questo “noi”, negli ultimi tempi rispetto agli anni passati?
Ci godiamo il momento, festeggiando le nuove energie e il nuovo disco. Rispetto al passato, guardiamo sempre al bicchiere mezzo pieno. L’insuccesso, dopotutto, non ci ha mai dato alla testa. 😊
Dite esplicitamente che La mejo medicina è “st’amore”, un concetto che assume continuamente diverse sembianze in base alle singole interpretazioni; qual è la vostra? Cos’è per voi l’amore?
Nel brano La mejo medicina, l’amore è la musica o, più in generale, l’arte: passioni da coltivare, capaci di farci sognare anche quando abbiamo le catene ai piedi. In Montale, invece, l’amore assume le sembianze di un abbraccio dato a chi è in difficoltà, nei momenti di dolore. In Aprile, l’amore si manifesta come rispetto per la vita: la nostra e quella degli altri.
Sia nella copertina sia ne La bandiera è presente la figura del bambino/ragazzino; cosa rappresenta? Richiama in qualche modo la pluralità sopraccitata?
La figura del bambino rappresenta la ricerca della libertà. All’interno del CD, infatti, sono incluse foto di noi sei da piccoli. Abbiamo illustrato il libretto con richiami al gioco e all’infanzia, evocando la purezza di quella libertà sfrenata e autentica che abbiamo conosciuto solo da bambini. Forse è proprio ciò che oggi sentiamo più lontano dalla nostra vita, ma che meglio simboleggia il nostro desiderio di leggerezza e rinnovamento.
Dal punto di vista sonoro, il disco sembra quasi diviso a metà: ci sono brani, come Sotto ‘n artro cielo, Aprile o Pe’ troppo amore che sono molto più aderenti alle sonorità dei dischi precedenti, mentre un altro blocco sembra voler esplorare nuovi sottogeneri del rock, lasciando sempre invariata l’impronta folk e romana della band; siete d’accordo con questa affermazione? Questa dicotomia è dovuta in qualche modo a motivi cronologici e/o di cambi di formazione?
Dal nostro primo disco a oggi ci siamo sempre sentiti liberi di spaziare attraverso diversi generi, anche se le nostre inclinazioni più forti si trovano nel rock, nel cantautorato e in un certo folk americano. Dal quarto disco al sesto, però, metà della formazione è cambiata: sono arrivati nuovi musicisti che hanno aggiunto qualcosa di nuovo rispetto al passato. Naturalmente, abbiamo cercato di capitalizzare al massimo il loro apporto innovativo. Il nostro obiettivo in fase compositiva è sempre stato quello di evitare soluzioni già affrontate, mettendoci tutti al servizio della canzone e favorendo una fruizione che esalti in egual misura sia il testo che la musica.
Per quanto riguarda la scrittura di Minerva: serve uno sforzo maggiore, da parte di un autore cresciuto (anche contro il proprio volere) all’interno di un sistema culturale patriarcale, per interpretare una voce femminile rispetto all’immedesimarsi, sempre in altre minoranze, ma maschili?
Quando abbiamo rappresentato, cantando, delle minoranze, queste erano donne e uomini in egual misura, probabilmente fuse insieme nello stesso popolo e nelle stesse lotte. Non credo sia necessario uno sforzo maggiore per parlare al femminile o per essere al fianco delle lotte delle nostre sorelle, madri o figlie. Serve soltanto una maggiore consapevolezza per riconoscere certi atteggiamenti sbagliati, magari anche nostri, e la volontà di mettersi in discussione.
Come l’antichi tratta a tutti gli effetti della “società della performance”, venuta a galla negli ultimi anni insieme a forme lavorative diverse da quelle del proletariato, ed è il pezzo più vicino allo stornello all’interno del disco; parlateci un po’ di quest’unione tra passato e presente, quale valore le attribuite?
Come l’antichi è una canzone leggera e molto tradizionale; rievoca immagini di un mondo passato, esaltando i piaceri della vita e quella scanzonata vitalità tipica della gente di Roma, che, anche nella società della performance, è dura a morire. Il valore che attribuiamo alla tradizione e alle radici del nostro territorio è imprescindibile: ci lega alle nostre storie familiari e al passato della nostra città, che il mondo contemporaneo sembra voler annientare. Per adattamento, molti stanno perdendo la parte più autentica di sé stessi, ma questo non accadrà mai al Muro del Canto.
Il Muro del Canto è una band che si prefissa uno scopo rivoluzionario, che attribuisce alla musica un potenziale sovversivo? Se sì, come ci si sente a dover parlare ancora “di ultimi” dopo quindici anni di carriera artistica?
Con le canzoni si può al massimo sovvertire l’umore di chi ascolta, ma questo è un effetto passeggero: si può regalare, tutt’al più, una bella serata o qualche brano piacevole. Mi sembra che il vero potenziale sovversivo sia sempre in mano a chi detiene il potere e dispone di molti più mezzi economici. Ti fanno pensare a quello che gli conviene e comprare ciò che vendono.
Noi siamo operai, precari, disoccupati. Siamo parecchio incazzati e, spesso, anche scoraggiati. Suoniamo, e lo facciamo con tutte le energie, perché questo ci aiuta a migliorare la nostra vita. Stare insieme, aprirci alla gente che ci segue e che ci vuole bene è la cosa migliore che siamo riusciti a fare. La meglio medicina, appunto.