Continua il volo di questa band romana attraverso un debutto che vuole esprimere ancora più chiaramente la profonda disillusione che caratterizza gli inizi di questo secondo millennio
“Senza ali” è il furioso e disilluso album d’esordio della band romana Mosche. Il loro è un rock duro contaminato da varie influenze e sonorità, dall’elettronica al progressive. Un lavoro che conta anche una particolare cover di “Il mare d’inverno”. Agguerrito e rabbioso, “Senza ali” segna l’inizio di un gruppo promettente, una scarica elettrica che vorrebbe scuotere una realtà amara che ci schiaccia ogni giorno. Un invito a spiccare il volo, a suon di brutali colpi di rock.
“Le Mosche” si scelgono il ruolo di invisibili osservatori. Attraverso un ronzio rivelatore e ad alto volume fanno luce sul “letame” attorno al quale volano e di cui sempre si sono per necessità nutrite”: di cosa è fatto questo letame? Cosa indica questo termine per voi?
-È quello che ti porti dentro, che ognuno nelle relazioni con gli altri porta con sé consciamente o meno. Ognuno di noi ha un bagaglio di principi e modi di pensare e comportarsi secondo codici voluti da chi ci ha educato e che a propria volta ha subito tali “imposizioni”. Riflettere su questo, far luce su ciò che davvero ci appartiene interiormente e ciò che invece viene direttamente dall’esterno già è un buon punto di partenza per cominciare ad essere noi stessi davvero. Viviamo in una società dove ti viene detto che devi essere te stesso ma in realtà poi dai fastidio e vieni emarginato se lo fai davvero. C’è un’ipocrisia di fondo che ti chiede verità ma vuole finzione.
Vi sentite come “Mosche senza ali”?
-Utilizzando la musica come mezzo, come semplice strumento, come amplificatore di un pensiero e di un modo di vedere le cose, ci sentiamo degli insetti, delle mosche. Osservatori onnipresenti e rivelatori fastidiosi di frammenti di realtà maleodoranti e marci, che faremmo meglio a evitare e sui quali vorremmo far luce in modo da permettere una riflessione anche da parte di chi ci ascolta. Come le mosche ce ne nutriamo perché da sempre è stato così. Siamo ciò che siamo da sempre. Figli del nostro ambiente. “Senza ali”, il nome del nostro primo album è volutamente indicativo dell’essere rappresentanti di un’esistenza a metà. Questo mondo ti trasforma in ciò che non avresti immaginato ma non lo fa completamente, quindi anche nel male soffri una mancata totalità.
A tratti progressive, a tratti metal (passando per il “funky” di “Talent”, l’elettronica di “Vedi Sara!”, persino un assaggio di dub in “Padre”): come definireste con una parola quello che fate?
-Musica.
In questo “Senza ali” c’è una cover di “Il mare d’inverno”, celebre pezzo scritto da Enrico Ruggeri e interpretato da Loredana Bertè. Come mai avete deciso di inserire nel disco proprio una cover di questo brano?
-Il tema è rappresentativo proprio di uno dei concetti che è alla base del nostro messaggio. Nella ricerca infinita della propria felicità e di una crescita sempre maggiore, guardare ciò che siamo abituati a guardare anche da un altro punto di vista, da un’altra angolazione, da un altro tempo e con un altro stato d’animo ne cambia la nostra percezione di quel qualcosa. Il mare d’inverno è un esempio di tale pensiero che ci è sembrato molto calzante.
Cosa ascoltano le Mosche di solito?
-Qualsiasi cosa, veniamo da background culturali molto diversi. Quello che ci accomuna è il non rifiutare a priori nessun tipo di ascolto. Il pregiudizio è bandito e in fase compositiva siamo molto collaborativi e tolleranti l’un l’altro verso le nostre idee individuali.
Quali sono i dischi in uscita che state aspettando in questo 2017 appena iniziato?
-Beh, non usciranno poche cose; tra gli italiani interessante sarà sicuramente ascoltare il lavoro dei Baustelle, poi ci sarà il nuovo di John Mayer, inaspettatamente un nuovo lavoro dai Deep Purple… insomma qualche cosina succulenta se la si cerca arriva sempre.
Quali sono le difficoltà per delle sinergie artistiche di questi tempi? Credete che si possa ancora parlare di una scena ‘indie’ unita che spinga verso la stessa direzione di condivisione e diffusione?
-Perché è mai stato così? No, scusa la risposta disillusa d’impulso ma nella scena italiana c’è talmente tanto individualismo che mi viene da ridere ad ascoltare la tua domanda. Indipendentemente dal genere musicale. Ognuno promuove e condivide solo sé stesso. C’è bisogno di farlo presente davvero? Basta guardarsi intorno. Uomo mangia uomo. Da sempre. La solidarietà è ipocrisia mascherata. È il doppio fine per cui si aiutano gli altri. Il tornaconto personale è l’unico Dio. Cambiare tutto ciò è utopia ma l’importante è che i pochi che vogliono davvero cambiare questa cosa siano talmente presuntuosi da farlo costantemente. Ovviamente è un discorso che va oltre la musica. Esiste in tutti i campi. La società è marcia perché l’essere umano è meschino. Non esserlo è troppo rischioso. Coloro che rischiano sono pochi e nelle nostre canzoni ci appelliamo soprattutto a quei pochi. Ho divagato ma non mi viene da dire altro.
Cosa avete in serbo per noi nel futuro prossimo?
-Un secondo disco con un sound rinnovato e sicuramente diverso rispetto a ciò che abbiamo prodotto fin ora. Ogni album è un’opera a sé e quando si chiude si volta pagina. Non vogliamo fossilizzarci su un’immagine sonora uguale a se stessa nel tempo. Miriamo ad un’evoluzione continua.
Francesca Marini