– di Riccardo De Stefano –
Dopo la sbornia musicale di sabato 9 luglio, quando i Måneskin hanno riempito il Circo Massimo a Roma, la band capitolina è tornata trending topic della social sfera italiana, con le consuete polemichette di contorno.
Da un lato ci sono i i difensori del quartetto, quelli cioè che, più o meno fan della band, ne hanno elogiato l’esibizione, il percorso, i risultati in termini di pubblico con toni quanto più quanto meno entusiastici.
Dall’altro lato i detrattori, non necessariamente hater (ma spesso il confine è labile) che ne detestano il linguaggio, il messaggio, la musica, quello stesso percorso e la credibilità artistica.
Se il primo dei macroblocchi è di fatto trascurabile (d’altronde a dire “bravi” son bravi tutti, me compreso), il secondo è assai più interessante, perché tratteggia un pattern comune che attraversa la storia della cultura di massa.
Perché chi (più o meno) detesta il complesso, ci tiene in modo particolare a spiegarne i motivi: il detrattore non è solo qualcuno contro, ma vuole a tutti i costi dirti quanto tu, dall’altra parte, ti sbagli e hai la coscienza sporca, o, se va bene, sei solo un ignorante.
IL VERO ROCK
La critica principale che riecheggia ormai da anni è un ritornello abusatissimo, sentito milioni di volte come neanche il pop più becero radiofonico estivo: i Måneskin non fanno vero rock.
Perché il vero rock è sempre qualcos’altro, ben diverso da ciò che quei quattro suonano. A sentire i tanti che si indignano, c’è sempre qualcuno più “autentico”, più sincero, più rock.
Perché il rock è forse quel genere, ormai storicizzato, per cui esiste una norma a cui attenersi, un paradiso dorato in cui stai o non stai. Ed ecco la sfilza di nomi: i Måneskin non sono vero rock, perché non sono come i Guns’n’roses, anzi non sono come i Led Zeppelin, né tantomeno come i Red Hot Chilli Peppers, né come i Pearl Jam, né come i Beatles, Deep Purple, Black Sabbath, Mastodon, Strokes, Nirvana, Metallica, Iggy Pop, Clash, Queen, Oasis, Muse, Idles, Fontaine DC (e molti di questi non c’entrano niente l’uno con l’altro)
C’è sempre qualcuno che è più autentico, più sincero dei Måneskin, e questo mi fa riflettere.
ROCK AUTENTICO E INAUTENTICO
In Almost Famous Philip Seymour Hoffman, che interpreta la più rockstar dei critici musicali Lester Bangs, ammonisce il protagonista: “È un peccato che tu ti sia perso il rock and roll, è finito, sei giusto in tempo per il rantolo della morte, l’ultimo singulto, l’ultimo annaspo”. Il film è ambientato nel 1973.
Pochi mesi prima, nel 1972, Pete Townshend dei The Who cantava “Rock is dead they say/ Long live rock”.
Perché questi commenti lapidari? Specialmente in un’epoca che per noi rappresenta tutto tranne la “morte del rock”.
Presto detto: il primo, vero rock delle origini era agli sgoccioli, pronto per essere soppiantato da una nuova ondata, una new wave che di lì a poco avrebbe cambiato tutto. Il rock autentico sarebbe stato rimpiazzato da un rock finto, che ne avrebbe preso il posto per reiterare il loop di nuovo (essere soppiantato da un nuovo rock finto) e ancora, di nuovo, altro giro altra corsa, fino a oggi.
Il rock si circonda infatti del concetto di “autenticità” e il discorso è da sempre centrale per il genere. Come dice il musicologo Simon Frith:
«In ogni momento della sua storia, i fan del rock hanno sempre respinto parte di questa musica, comprensiva dei vari apparati culturali associati e di un pubblico, non tanto perché rock di scarsa qualità o inferiore, ma in qualche modo come non realmente rock del tutto» (1)
Prosegue il pensiero il musicologo Philip Auslander, commentando il passo così:
«Il concetto dell’autenticità del rock è collegato con la forzatura romantica di una cultura rock, nella quale la musica rock è immaginata come espressione reale dell’anima e della psiche dell’artista, ed è necessariamente politicamente e culturalmente in opposizione» (2)
In altre parole, l’identificazione del pubblico nella musica rock coincide con la creazione di una cultura rock, per la quale qualcosa è più autentico di altri, ha più valore dell’altra musica, considerata inautentica, finta, creata appositamente per uno scopo. Perlopiù vendere, o appropriarsi di qualcosa che il pubblico “autentico” considera proprio, intoccabile, inviolabile.
Ma dicevamo che questo processo è storicamente esistito fin dagli albori della musica rock: i famosi scontri tra mod e rocker in Inghilterra negli anni ’60, o la nascita del cosiddetto alternative rock, in opposizione al rock manieristico e commerciale fuoriuscito dalla fine dei ’70 in poi – e necessariamente più vero dell’altro rock. I casi sarebbero decine e decine, e toccherebbero persino i mostri sacri e intoccabili del genere (ad esempio: gli Stones di “Their Satanic Majesties Request” erano autentici o emuli dei tanti nuovi gruppi psichedelici e/o dei Beatles?).
CHE COS’È IL ROCK?
Ma se si può parlare di una cultura rock, quali sono i limiti di questa identità culturale? Che cos’è realmente “rock”? Affidiamoci per praticità a Wikipedia, che riassume il genere così:
«Musicalmente il rock è incentrato sull’uso della chitarra elettrica, solitamente accompagnata dal basso elettrico e dalla batteria. Di solito, il rock è basato su canzoni con un tempo in 4/4 che utilizza una forma strofa-ritornello, ma il genere è diventato estremamente vario» (link)
Ahia, ci aiuta, ma non risolve la situazione.
“Rock”, in soldoni, come termine è troppo generico, troppo indefinibile di per sé, o per dirla con le parole del musicologo Lawrence Grossberg
«Il rock non può essere definito in termini musicali […] perché non ci sono limiti musicali in quello che può o non può essere rock… Non c’è nulla che non possa diventare una canzone rock, o, più precisamente, non c’è alcun suono che non possa diventare rock» (3)
Ma se neanche la critica c’è d’aiuto, rimane il grande dubbio. I Måneskin sono rock o no?
I MÅNESKIN SONO ROCK?
Tante parole e il dubbio rimane: che cosa sono i Måneskin? Un prodotto commerciale studiato a tavolino? O forse degli emuli scadenti per una generazione sfortunata che non ha avuto occasione di sentire e crescere col vero rock? Oppure il frutto dell’ignoranza dilagante e degli ascolti forzati di Spotify, o dei talent, o dell’Eurovision, o di TikTok?
I Måneskin, attenendoci agli stilemi storici del genere, non possono non definirsi rock: ne usano gli strumenti (il cosiddetto power trio di chitarra elettrica, basso e batteria), le strutture musicali (i riff, la forma canzone), il linguaggio, l’immaginario visivo, lo stile musicale e del cantato.
Eppure, i tanti pasdaran del Vero Rock™ ci tengono in maniera particolare a negarlo, a puntare il dito e a lamentarsi. Perché?
IL MÅNESKINPLAINING
Perché ovviamente i Måneskin non piacciono a tutti, e questo è inevitabile. A molti sono antipatici perché considerati finti, mediocri e senza talento. Per cui non è possibile utilizzare il termine rock per un prodotto così volgarmente di massa, né per loro né tantomeno per uno come Achille Lauro.
Perché il rock è ormai un genere classico, storicizzato, impresso nella storia grazie agli artisti di culto di 60 anni fa (non a caso etichettati come classic rock), e seppure evoluto e diluito in molte forme diverse, circondato di una sacralità e di un’aura che nessun artefatto riprodotto tecnicamente in serie farà mai perdere.
E questo renderebbe il rock un genere morto e sepolto, un quadro bellissimo da tenere in qualche museo e trattare con cura, senza rovinarlo, come fosse qualcosa da tutelare e preservare, da non sporcare per non perderlo per sempre. E così facendo, lo si mutila e lo si uccide, una volta per tutte.
Perché, per citare di nuovo Grossberg:
«Il rock deve costantemente cambiare per sopravvivere; deve cercare di riprodurre la propria autenticità in nuove forme, in nuovi posti, in nuove alleanze. Deve costantemente muoversi da un centro a un altro, trasformando quello che era autentico in qualcosa di inautentico in modo da costantemente proiettare le proprie manifestazioni di autenticità» (4)
Il Måneskinplaining di questa parte del pubblico, il doverci per forza spiegare a forza quanto la band NON sia rock “perché… no!” è la dimostrazione che la musica prima di tutto è una questione identitaria.
Cioè l’ascolto di un certo tipo di musica definisce la nostra personalità: se ti commuovi con “Us and them” dei Pink Floyd non potrai mai piangere per “… Baby one more time” di Britney Spears.
Come cantavano gli Arcade Fire nel 2010: “Now the music divides us into tribes / You grew your hair/ So I grew mine / You choose your side / I’ll choose my side”.
IDENTITÀ È AUTENTICITÀ
Identità è autenticità.
Se io ascolto musica rock è perché ci sono cresciuto, mi ha reso la persona che sono. E se sono così, allora significa che quello che non mi piace, che non mi rappresenta non può essere musica rock. Non può essere vera, né autentica, perché se lo fosse, quello con cui sono cresciuto io non esisterebbe più, non mi ritroverei più in niente, non esisterebbe più nulla di quello in cui credevo e oggi sarei qualcosa di diverso, incapace di ritrovarmi ne “la musica di oggi”.
Chi si appiglia alla sterile polemica sull’appartenenza o meno dei Måneskin al genere “rock” sovrappone la propria idea musicale – la propria appartenenza identitaria – e il proprio gusto contro qualcosa che non ama, che non riconosce, che non gli appartiene. Perché il rock (e pochissimi altri generi, come il rap o il metal) è portatore di appartenenza e identità.
E l’identità si costruisce anche in negativo: io sono anche quello che non mi piace, che non mi rappresenta. E devo per forza convincerti di quello che dico, perché così, se ti dimostrerò di avere ragione, saprò meglio chi sono.
E questo va bene, è comprensibile, forse sacrosanto. Sacro e santo, intoccabile come il Vero Rock (lol).
Ma bisognerebbe anche lasciare che ognuno compia il proprio percorso identitario, che il sedicenne inesperto si commuova ballando e cantando “I Wanna Be Your Slave” (come Shiloh, la figlia di Angelina Jolie sembra fare) senza dover per forza pensare che il rock sia qualcosa di sacro, immutabile, perfetto e intoccabile.
E che questo percorso identitario lo compia la musica rock, da sempre accusata di inautenticità, anche per chi oggi considerato intoccabile.
Perché ci può essere Grande rock e pessimo rock, su questo nessuno mette il minimo dubbio. Ma la musica rock è qualcosa di talmente grande che né io, né te, né alcun musicologo potrà mai riassumere in qualche riga.
Rock is dead – they say. Long live rock
NOTE:
(1): S. Frith, Performing Rites: On the value of popular music, Cambridge:Harvard University press, 1996, p. 40 (la traduzione, un po’ sbilenca, è mia)
(2): P. Auslander, Liveness. Performance in a mediatized culture, Routledge, 1999, p.70 (anche qua traduzione mia)
(3): L. Grossberg, We gotta get out of this place: popular conservatism and post-modern culture, Routledge, 1992, p. 131
(4): L. Grossberg, op.cit., p. 209
Che suonino Rock non c’è dubbio, la strumentazione è quella. Che siano una band creata a tavolino e coccolata dai media con uno scopo preciso, neanche. Apprezzabile lo stile in un’epoca così arida musicalmente parlando ma è proprio quello il punto. Al pari di Vasco Rossi o Ligabue (e in maniera ancora più evidente e in altro genere Il Volo) si tratta di realtà addomesticate molto presto o fin da subito per renderli “rock istituzionalizzato”, che infatti vende solo in Italia e non ha mai sfondato altrove. Ad ogni istituzione “trasgressiva” corrisponde una contromossa dello status quo per renderla blanda e inoffensiva, semplicemente integrandola. Così è avvenuto anche per il Rock e queste band sono solo la punta dell’iceberg. Se volete sapere davvero come sono andate le cose musicalmente in Italia, bisogna andare un po’ oltre la storia che ci raccontano. I veri gruppi che hanno lasciato il segno appartengono a sottogeneri più di nicchia. I Negazione li conoscono relativamente in pochi eppure sono stati un’eccellenza assoluta nel proprio campo, l’Hardcore Punk, così come la PFM per il Prog Rock. I Maneskin e Vasco Rossi saranno anche Rock, riempiranno anche gli stadi, ma tra qualche anno, varcato il confine nazionale non ne rimarrà traccia alcuna. A maggior ragione per una band che scimmiotta palesemente i Led Zeppelin. Se nasci come un’imitazione è difficile poi elevarsi oltre. Ma penso siano studiati per durare poche stagioni, al contrario dei grossi “rocker” nazional-popolari.