• di Riccardo De Stefano •
Tutto il fenomeno Liberato mi lascia incredibilmente perplesso. Lo ammetto: anche io – da romano – sono andato a Napoli, in questo 9 maggio così catartico e simbolico, per vedere l’evento, per vivere l’esperienza Liberato, fare un paio di storie Instagram e dire “io c’ero”.
D’altronde già al Mi Ami 2017 ero sottopalco (o giù di lì) per rendermi conto di cosa stesse per succedere: avevo sentito i brani ovviamente, ma snobbandoli rapidamente senza rendermi conto di quanto le persone realmente stessero in fissa per questo ibrido trap-partenopeo, o quel che è, d’altronde lo trovo musicalmente poco interessante e culturalmente superfluo. Quando sul palco si presentò Calcutta – seppure la voce girasse già dal pomeriggio – la mia impressione fu quella di una bomba esplosa tra le persone, come se tutti stessero vivendo la rivelazione nello stupore di un “io l’avevo detto/non ci posso credere”. Sì, anche io ho provato a scrivere sui miei social “Calcutta è Liberato”, fortunosamente frenato dal blocco della rete internet causato dalla massa umana presente.
Nondimeno, sono arrivato a Napoli, tardivamente, trovando una situazione surreale, “da Black mirror” (che ormai è l’espressione più abusata dalla rete): migliaia di persone, un numero da me non quantificabile (probabilmente tra le 6mila e le 10mila, lo so forchetta larga ma io non sono capace), chi più chi meno attento a quello che succedeva sul palco, ma tutti tutti TUTTI T U T T I col cellulare in mano, per fare un paio di storie Instagram e dire “io c’ero”.
Il concerto? Perlopiù inutile, ovviamente breve e senza nessun colpo di scena, trucco di magia, apparizione misteriosa o rivelazione messianica. Qualcuno sul palco a cantare effettivamente c’era, da me a malapena visibile, comunque ben coperto, nascosto da migliaia di braccia alzate con cellulari in mano e cappuccio in testa. Poi, va detto, la Rotonda Diaz si è rivelata, come sospettabile, venue totalmente inadeguata all’evento, paralizzata da una massa di pubblico incredibile per cui o eri tra gli ardimentosi eroi in (largo?) anticipo oppure, sì, c’eri, ma anche seguirla su Instagram era uguale.
L’effetto è strato straniante, quasi alienante: c’ero, ma non era un “live”. Una sensazione simile l’ho provata alla festa di Bomba Dischi, a Roma, a Largo Venue: lì, lo sappiamo, erano tutti per Calcutta, e chi sennò. Il guaio è che lui, che a malapena si poteva intravedere sul palco, con solo la chitarrina elettrica era inudibile ai più, sommerso dal cantato del pubblico che di gran lunga sovrastava le possibilità di volume della voce di Edoardo, il quale non a caso in più parti della breve esibizione ha lasciato cantare gli altri, trasformando il tutto in un enorme karaoke scordinato e stonato.
Gli effetti delle sue esibizioni sono stati gli stessi: ondate di pubblico in disperata ricerca di contatto visivo e disponibile senza tregua ad urlare i testi delle canzoni, quasi incurante di chi ci fosse realmente sul palco. L’importante era esserci e cantare con l’artista, anzi sopra l’artista. La differenza tra le due situazioni sta nel fatto che Calcutta è Calcutta: lo vedi, lo riconosci, sai che sta lì, lo ami e quindi tutto questo basta.
Liberato, invece, NON è Liberato. Come ormai chiaro a tutti, chi si presta, anzi, chi presta la voce e il corpo all’idea-Liberato non è, né può essere la persona fisica e il soggetto dell’Opera artistica, per ovvi motivi di esposizione plateale da evitare assolutamente.
Quindi che cos’è un concerto di Liberato? È una performance artistica di chi? Di “qualcuno”? Qualcuno chi? Chi stiamo vedendo sul palco cantare? Se domani organizzassi un concerto con le stesse basi e chiamassi qualche artista napoletano, magari Livio Cori, a cantare i brani, chi potrebbe dire che quello NON è un concerto di Liberato? Che cosa rende un concerto di Liberato, un concerto di Liberato? Il profilo Instagram/Pagina Facebook ufficiale che mette il bollino di garanzia?
Sul palco non c’è nessuno che suona realmente, e quel qualcuno che canta è di fatto “prestato” all’evento. L’aspetto fantasmagorico di Liberato è paradossalmente proprio nel momento del live portato all’estremo, perché le persone non si domandano neanche più se “lui” sia davvero o meno Liberato, eppure accalcano il frontepalco con rigore e veemenza fideistica, nel sacro rito della condivisone della Storia – dell’evento Storico. Se sul palco salisse qualcuno a fingere di cantare (evento che ieri è stato anche possibile ma decisamente improbabile in verità) l’effetto finale sarebbe lo stesso: il pubblico, tanto non pagante, avrebbe lo stesso goduto del momento, perché sempre di Liberato si sarebbe trattato.
Non so se il fenomeno Liberato è un esperimento sociale (tipo Cambogia?), un episodio di marketing virale, una creazione artistica a tuto tondo, una riflessione sulla figura dell’artista nella società della rete o magari il capolavoro di un uaglione talentuoso. Poco importa. La reazione della gente è chiara ed evidente: metteteci chi volete, basta che lo chiamate Liberato. Può cantare, può suonare, può fare quello che vuole, noi ci saremo, perché noi amiamo Liberato.
Sarebbe davvero interessante e coraggioso se un gruppo di persone parallelo iniziasse a promuovere nuovi, equivalenti show musicali utilizzando lo stesso moniker: costringerebbe la realtà artistica Liberato ad esporsi, di fatto rovinandogli il gioco e scoprendogli le carte. D’altronde, lo ripeto, chi può dire chi è davvero Liberato, se non Liberato stesso? Il pubblico di certo non ha bisogno di saperlo, a loro interessa esserci, qualsiasi cosa esso sia.