Volevo intitolare questa intervista qualcosa come “Stai andando bene Giovanni” oppure “Conversazione con Giovanni sui destini della musica”, per pormi a metà strada tra il cliché e la frase arguta. Invece mi rifaccio a una dotta citazione, già utilizzata per un grande della Musica, nella speranza che possa essere di buon augurio. Già, perché con Giovanni Truppi penso davvero di aver visto “il futuro del rock” in Italia. Giovanni infatti ha tutte le carte in regola per conquistare il difficile pubblico della Penisola: testi arguti e poetici, melodie semplici, dirette ed efficaci e quel pizzico di follia per non rendere banale il tutto. Giovanni Truppi, la tua ultima fatica, è un album che conquista dopo aver lasciato spiazzati al primo impatto. È passato del tempo dall’uscita del disco, fine gennaio: com’è cambiato il disco, lo senti diverso ora che lo hai portato in giro per tante date, ti ci approcci in maniera diversa?
Per ora sono ancora dentro quel momento lì: questi mesi sono stati pieni, travolgenti, non ho avuto molto tempo per guardare il disco con distacco. Mi rendo conto che c’è ora un’attenzione maggiore da parte delle persone e degli addetti ai lavori, probabilmente perché il disco precedente ha fatto un lavoro di semina. Poi il fatto che il disco sia più arrangiato aiuta la fruizione. In realtà forse in questo disco ci sono addirittura pezzi più difficili che nel disco precedente ma il fatto che ci sia più musica aiuta le persone ad entrarci meglio.
Il tuo rock cantautoriale, banalizziamo così, è da godere dal vivo per catturare l’essenza stessa della tua musica. Come ti trovi a suonare con una band (Francesco Motta, chitarra, tastiere e voce e Luciano Turella alla batteria)? Ti senti più a tuo agio rispetto i concerti da solo?
È la prima volta che mi capita di suonare così tanto di estate. Avevo già suonato in duo, ma in tre ti senti davvero in una band. Sono fortunato ad avere con me Francesco e Luciano, sono bravi e interpretano bene la mia idea di musica. Continuerò ad avere una band ma anche a suonare da solo, perché mi piace moltissimo; certo, alcuni brani li devo adattare rispetto all’album, ma c’è un fascino unico.
Nonostante il fatto che suoni prevalentemente la chitarra dal vivo, nasci pianista. Anzi, addirittura ti sei costruito una sorta di “pianoforte elettrificato”! Come mai questo slittamento nella strumentazione? E cosa ti ha spinto a elaborare uno strumento “classico” come il pianoforte acustico?
Durante l’adolescenza la chitarra mi sembrava più figa, poi l’idea di cantare dietro una tastiera era orripilante, quindi son passato alla chitarra. Mi piaceva l’idea di un “pianoforte elettrificato”, uno dei motivi per cui ho scelto la chitarra è che c’è un rapporto fisico, la abbracci, la tocchi, mentre col pianoforte c’è una distanza maggiore. Ho voluto provare a vedere se rimpicciolendo il pianoforte riuscivo ad avere un rapporto diverso. Mi piacerebbe comunque fare un solo di piano ma è un lavorone.
Quanto pensi che sia maturato il tuo modo di scrivere in questi anni, giunto alla tua terza opera?
Il mio primo album, “C’è un me dentro di me”, non era molto coraggioso,non correva rischi. Con quel disco mi confrontavo con la forma canzone: ho studiato le “canzoni” e ho capito che son questa cosa qua. Se non avessi fatto quel disco non sarei potuto arrivare a “Il mondo è come te lo metti in testa”, completamente antitetico: volevo ribaltare gli schemi dopo aver fatto il compitino. In questo terzo disco ritornano degli elementi dal primo, c’è meno ansia di rottura.
Hai un approccio originale e profondamente personale alla scrittura di testi e musica. C’è qualche artista nonostante tutto che senti vicino, che ti ha influenzato?
In passato ho amato molto i cantautori italiani, soprattutto Paolo Conte, che ascolto tantissimo ancora, ma non penso sia un riferimento preciso nella mia musica. Li uso come guida: vorrei solo far provare ciò che ho provato ascoltando i loro brani, non avrebbe senso rifare ciò che è già stato fatto. Un riferimento importantissimo è John Lennon. E poi c’è Gianfranco Marziano, un artista campano che conosciamo soltanto noi, un mito vero. Ascoltarlo è stato un punto di svolta, mi ha fatto scattare un approccio diverso, senza lui continuerei a scrivere canzoni standard. Lui è super estremo, molto volgare, con bestemmie, ma anche poetico a tratti. Ascoltandolo mi sono accorto che mi coinvolgeva enormemente, perché parlava di cose che mi riguardavano,molto concrete, utilizzando un linguaggio volgare ma credibile. Ho provato a lavorare su questi elementi.
Si avverte forte nelle canzoni la tua presenza, in quanto voce narrante, in una sorta di costante autobiografismo rafforzato dai tanti personaggi che introduci, come Sabino, il Pilota, Marco. Pensi mai a quanto il pubblico ti associ al narratore o ai personaggi delle tue canzoni, col rischio magari di fraintenderti?
L’autobiografismo di cui tu parli è assolutamente tangibile, ma è una componente letteraria come un’altra: io potrei essere completamente diverso dal personaggio delle canzoni. Nella musica come magari in altre forme d’arte quello che viene fuori è una maschera, come Pulcinella o Arlecchino. Cerco solo di costruire un personaggio: che poi io venga identificato dalle persone con lui non mi importa, anzi magari significa che quel personaggio è forte e credibile. Ho cercato di concentrarmi il più possibile nel raccontare quello che mi interessava in prima persona. Magari il “Pilota” esiste ma è diverso rispetto alla canzone: parto dal dato concreto per raccontare altre cose. Mi son reso conto che da ascoltatore questo approccio mi affascinava. È stata una cosa spontanea, che ho provato a fare anche col primo disco.
Dal “mondo è come me lo metto in testa”, fino a “Tutto l’universo” in capa tua, sembra esserci un trait d’union tra i dischi, una sorta di visione dell’esistenza che parte dalle tue esperienze personali e dalla tua fantasia per descrivere poi il Mondo intero. È una scelta precisa o solo uno sviluppo secondario?
Questo disco lo trovo molto sfaccettato, sembra andare in tante direzioni diverse, ai limiti della incoerenza, mentre “Il mondo…” ha il fil rouge dell’autobiografismo che fa da collante ed ha funzionato, ma è solo una strada delle possibili. Volevo confrontarmi con altre formule, ho provato a fare qualcosa di diverso: le cose di cui parlo nel disco sono quelle che mi hanno coinvolto in quel periodo, mi sono confrontato con il rapporto che c’era tra me e la Realtà, tra la mia percezione della realtà e quello che della Realtà esisteva a prescindere; e con il Tempo, cioè quello con cui gli uomini si sono confrontati da sempre.
Quindi come ti approcci alla scrittura? Parti da un’idea, un verso, un testo?
Non è facile e non è sempre uguale. I testi sono la base di tutto, quando ho un testo che sta in piedi ed è denso, cioè ha una sua sonorità anche solo nel parlato, è facile tirare fuori una melodia e da lì costruire una canzone. In altri brani invece, come “Stai andando bene Giovanni”, sono partito da un riff o una idea musicale prima, ma per la maggior parte dei brani il testo conteneva già la melodia. “Superman” è nata così: ho spostato il baricentro sul testo e questo è stato un escamotage per ribaltare le cose e lavorare anche alla musica da un’angolazione diversa.
Al di là degli aspetti più ironici delle tue canzoni, esprimi anche il tuo lato più intimo in un brano come “Eva”, che ha il coraggio di affrontare il punto di vista della coppia dalla parte di lei, giungendo alla conclusione che nonostante l’ira di Dio, “tu per me e io per te siamo la sola cosa che del Paradiso ci rimane”. Cosa ti ha spinto a scrivere una canzone come “Eva” e non, per dire, una “Adamo”?
In “Eva” faccio un piccolo film dove interpeto la parte della donna. La figura della donna mi incuriosisce, mi ci confronto costantemente, sia per capire meglio degli aspetti di me, che non sono proprio il “maschio alfa”. Passo molto tempo a cercare di capire come sono fatte loro e come siamo fatti noi, con annessi e connessi. Ma sto tentando di scrivere “Adamo”. Però d’altro canto c’è anche “Hai messo incinta una scema” che temevo fosse troppo forte, dato che emerge una tipologia di donna non proprio lusinghiera alla categoria. Ho provato a raccontare tutti gli aspetti dei due mondi, dell’uomo e della donna.
C’è qualcosa del disco che adesso faresti diversamente?
Ho delle perplessità su “Alieno”. Il brano, benché sia registrato per intero, si interrompe bruscamente, perché pensavamo non avesse la robustezza per funzionare autonomamente come brano a se stante, però ci piacevano una serie di elementi, ma credo comunque che sia la canzone meno riuscita del disco. Ha molto più senso come introduzione per “Conversazione con marco…”, esiste un rapporto tra le due ma non so quanto questa cosa sia evidente. Per il resto non riesco a guardare all’album con distacco, anzi ci sono delle cose che sono ancora stupito di come siano uscite fuori, per esempio “Stai andando bene Giovanni”, “Pirati” e “Tutto l’universo” sono canzoni che penso sia strano averle scritte, più che per i testi proprio per la musica.
Riccardo De Stefano