– di Angelo Andrea Vegliante –
Tutto è iniziato con il primo lockdown, quando le nostre vite sono state improvvisamente sconvolte da un cambio repentino di quotidianità. In quei giorni, come oggi, si cercava di non impazzire del tutto, versando la propria curiosità verso qualcosa di nuovo che fosse raggiungibile attraverso l’aiuto di uno smartphone. Ed è in questo contesto che mi sono avvicinato alla chillout music.
Si tratta di un vero e proprio sottofondo musicale, un sottogenere dell’ambient dominato da suoni evocativi e distesi, ripetitivi e melodici, che non lasciano spazio a ritmicità forti e serrate. Ascoltarla mi ha riportato alla mente i miei diciott’anni, le mie estati sulla spiaggia di Ostia e il desiderio della spensieratezza ormai persa, non tanto a causa dell’età che avanza, ma di una pandemia che sembrava torcermi il collo come fosse un tentacolo di un kraken. Mentirei se non dicessi che anche grazie alla chillout music mi sono sentito più al sicuro nelle mie fragili quattro mura domestiche, pur trattandosi di canzoni che vengono ascoltate prettamente da persone più giovani di me e che apprezzo particolarmente per il modo in cui si fondono con le sonorità pop.
Ecco, l’arcano sta tutto qui: ho ascoltato musica non del mio target e influenzata dal pop, sebbene la chillout nasca negli anni Novanta e trovi solo oggi una consacrazione di nicchia nel mercato italiano – anche grazie al pop stesso. Non sono riflessioni da sottovalutare, in quanto in passato ogni volta che ascoltavo musica “new age” (nel senso di novità) mi veniva sempre detto che stavo apprezzando merda liquida. È capitato prima con il rap, poi con la trap e infine proprio con la chillout music.
Eppure a me sembra di leggere sempre il solito spartito: se un genere non appartiene alla mia data di nascita e alla cultura associata ai miei anni allora, per forza di cose, sono obbligato a non apprezzarlo.
La mia avversità a questo leitmotiv mi ha spesso portato a scrivere opinioni in cui emergevo come l’avvocato del diavolo. Qualche anno fa, ad esempio, scrissi un pezzo dal titolo A chi conviene odiare la trap, in cui mi scagliavo proprio contro queste dinamiche fisse, dominate da un linguaggio culturale fin troppo prevedibile, specificando che la musica è un’entità più fluida e osmotica, sebbene in linea generale risponda a schemi fissi. Insomma, “Questa canzone è un po’ troppo da radio“, sticazzi, finché ti fa stare bene.
Eppure questo mio pensiero è crollato di fronte alla querelle social di Sfera Ebbasta in risposta a Young Thug, in particolare di fronte a uno dei tanti tweet del trapper:
https://twitter.com/sferaebbasta/status/1353368546580066304?s=20
Da una parte: è vero. C’è troppa gente che sputa sentenze sulla musica attuale senza apprezzarne (e ascoltarne) le evoluzioni/involuzioni a cui stiamo partecipando. Perché il cambiamento è fisiologico, gli artisti non possono essere sempre loro e qualcosa di nuovo è necessariamente umano.
Ciò che non mi convince del pensiero di Sfera Ebbasta è la seconda parte della sua stringata opinione: “Siamo delle pecore! Ci meritiamo di tornare al pop in classifica“. Lo ammetto, sono confuso.
Sono confuso perché, a mio avviso, nell’insieme del pop rientrano tutte quelle culture e sottoculture che diventano mainstream, che cominciano a essere un consumo di massa e arrivano a trangugiare passaggi in radio su passaggi in radio, in quanto nell’accezione occidentale nel nostro consumo la cultura pop è ciò che vende a più persone possibili, alla massa, appunto: cioè quei ritornelli base-argomentativi in cui un artista mescola il proprio background artistico. C’è il pop-rock, c’è il pop-rap; non vedo perché, dunque, non dovrebbe esistere anche la pop-trap. E osservando le classifiche forse è un sottogenere già consolidato.
Se dunque anche la trap, per diventare un prodotto di consumo di massa, deve obbligatoriamente rivolgersi a fette della cultura pop perché criticarla? Alla fine della fiera sono ancora le sonorità e le dinamiche pop-generiche a determinare un buon 50% della riuscita di un brano. Se volessimo cercare opere puramente rock, rap o trap sarebbe difficile trovare qualcosa nelle prime trenta posizioni in classifica.
Dove sta dunque il problema? Se volessimo proprio enfatizzare una critica nella struttura del consumo della musica attuale: il pop non è solo un genere o un adattatore musicale, ma anche un impianto culturale, storico e comprovato, che determina il modo in cui un ascoltatore decide di acquistare o arrivare ad ascoltare un brano.
Oggi il mercato non è più solo dischi, ma è algoritmi e servizi streaming che creano corridoi di suggerimenti e classifiche verticali su ogni cosa, mostrandoci prime posizioni di massa e di nicchia entrambe vendute come fossero pop. Si giunge così all’estremizzazione del pop stesso, che quindi indirettamente consolida ancora di più la propria autorità. Cambiano gli interpreti, cambiano le dinamiche di vendita, ma la base di fondo è sempre quella, in quanto a evolvere, negli ultimi trent’anni, sono stati gli strumenti e gli attori, ma i pilastri e i meccanismi della cultura pop sono rimasti granitici.
Ciò che notiamo nelle classifiche è sicuramente la presenza di maggiori interpreti della trap, su carta, ma che presentano canzoni con enormi influenze pop. E sia chiaro: non è un male. L’arte è bella perché ognuno può esprimersi nel modo che ritiene migliore. Perché allora si arriva denigrare qualcosa che a livello generazionale non ci appartiene, nonostante influenzi moltissimo il nostro modo di fare e le modalità di consumo? Forse siamo di fronte a una critica proprio da parte di chi non vuole ammettere che la struttura pop occidentale del nostro sistema musiculturale abbia comunque giocato un ruolo fondamentale nel proprio successo artistico. E tutto ciò lo rivedo anche nella chillout music, ma non la critico per questo.
Secondo me Sfera Ebbasta ha torto perché presume che la pop music non sia più un valore incontrastato per il successo da classifica, sebbene le top charts di massa siano piene di sonorità e influenze pop. Se poi vogliamo parlare di classifiche iper-verticali, determinate solo da un genere, bisognerebbe fare un discorso a parte, ma parliamo di sfere di nicchia, di artisti che in quell’ambito riescono a esprimere la propria arte senza venir contaminata “brutalmente” dalla musica pop. Se invece ci volessimo riferire alla scena del consumo di massa bisognerebbe ammettere che il pop dà una grande mano nel vendere il prodotto.
Ho trent’anni e mi sono appassionato alla chillout music, che comunque mi ricorda che il mondo non si divide tra prima e dopo, ma è contrassegnato da una scala di grigi che deve in qualche modo incontrare i miei gusti musicali, in un impianto musiculturale pesantemente influenzato dalla cultura pop. E criticare lo stesso impianto che ha permesso di avere successo sembra un po’ bonario. Se volessimo dei dati basterebbe guardare il numero degli stream: nella maggior parte dei casi si registreranno picchi altissimi per collaborazioni da musica pop e dischi passati in radio, meno ascolti, invece, per canzoni puramente trap.
Tutto ciò, comunque, è un grande forse, poiché non so che cosa intenda Sfera Ebbasta con il termine pop, in quanto il limite dei tweet è sempre quello. Personalmente mi piacerebbe sapere che cosa intenda, perché non ritiene che la sua musica sia influenzata da questa consolidata cultura e se ci siano dei sottotesti che non abbiamo inteso nella sua “corta” opinione. Nell’attesa, magari, un giorno, di poter intavolare questa discussione, io me ne torno alla mia chillout music influenzata da sonorità e dinamiche pop. Che non avrà interpreti “non-pop” del calibro di Alessandra Amoroso, Emma, Baby K, Irama e Fedez, ma a me comunque piace. Anche se non sono un sasso.