Il 24 novembre sono tornati i C’mon Tigre col loro ultimo album, Habitat, un viaggio multisensoriale dentro ai generi e ai colori.
– di Roberto Callipari –
Entrare nel lavoro del collettivo è un’esperienza profonda e primordiale, e non solo come modo di dire. Basta semplicemente far partire l’album per rendersi conto che la ritmica è pronta ad abbracciarci e a trascinarci nel ritmo e nella danza.
Se dovessimo pensarlo come un romanzo, sarebbe un lungo viaggio, un moderno “Jungle Book” nel quale, stavolta, è il dominio della natura a vincere, per perdersi e ritrovarsi in una lunga discesa nella profondità della foresta, perdendo quella predeterminazione ordinata della nostra società scoprendo che siamo fatti di commistioni e contaminazioni. “Goodbye reality”, apertura dell’album, è essenzialmente la richiesta di scendere a patti con i C’mon Tigre, almeno finché li si ascolta: la sospensione del giudizio parte proprio qui, iniziando la risalita che, in nove brani, ci riporterà alla civiltà.
Elettronica, jazz, afrobeat e molto dell’anima e dei suoni sudamericani coesistono, si sfiorano, impattano l’uno con l’altro, fra tempi dispari e la ricerca di un ordine nel caos. “Ricerca”, ma solo perché la perfezione non ci appartiene, ma possiamo cercarla, possiamo sfiorarla, e diradare questa nebbia non è detto che sia così facile, ma provarci non è detto non sia interessante.
Scesi nella giungla sarà Sean Kuti ad accoglierci, e chi meglio di lui: erede di Fela Kuti, Sean ci riporta alle origini con la sua voce, come una preghiera laica per la musica, per quelle terre che hanno preso il jazz e l’hanno risputato fuori creandone qualcosa di totalmente personale. Prestatosi anche al sax in questa traccia, Sean Kuti è il protagonista di una cronaca tutta fatta di ghost notes e sapori afrobeat degna dei grandi del passato.
Se ci lasciamo portare per mano in questo viaggio, i C’mon Tigre sapranno ancora premiarci. “Teenage Kingdom“, uscito già come singolo, è un altro slalom fra le sonorità, fra i synth e la samba, fra le voci e l’elettronica, il tutto a passo di danza fra le colorate strade di San Paolo, città natale di Xenia França, che a questo brano presta la sua voce.
E poi via di nuovo a correre, con sonorità più “tigrate”, come in “Sixtyfour seasons” che ci lancerà di nuovo in Nord Africa con “Nomad“. Il pericolo è dietro l’angolo in terre ignote, allora non perdetevi nelle ritmiche ossessive di “Odiame“, ma lasciatevi guidare dalla voce, così metallica ma così umana, così lontana eppure molto vicina.
Riemergere da questa esplorazione sarà facile, non senza una certa sorpresa, soprattutto quando nella coltre c’è Giovanni Truppi a richiamarci: anche lui, in “Sento un morso dolce“, così vicino eppure così lontano. Un Truppi così non l’avevamo ancora sentito, forse. O forse sì, non importa: l’unione di questi mondi, comunque mediterranei ora, è qualcosa di speciale, a metà fra slam poetry e rap, in una via in cui il confine è così sottile che tutto è tutto e niente al tempo stesso, ed è l’ascolto a definire cosa sta succedendo.
“Na dança das flores” ci riporta a ritmi più compassati, prima del saluto finale di “Keep watching me” in cui i C’mon Tigre ci abbracciano insieme ad Arto Lindsay, in un abbraccio orchestrale che fa sfoggio, ancora una volta (come se ce ne fosse bisogno), di tutta la palette sonora che abbiamo osservato fino ad ora. E siamo fuori dalle foglie, a rivedere la luce.
“Habitat” ne risulta un disco divertente, divertito, che gioca con sé stesso e con la sua stessa voglia di giocare, con la voglia di mostrare (forse anche troppo in alcuni momenti) quanto si può giocare con la musica e coi generi. Se fosse un esperimento, i C’mon Tigre avrebbero già saltato la parte del prototipo per proporre al mercato qualcosa che, una volta scoperto, rischia di essere nelle case di tutti nel giro di poco. Perché questo album ha sicuramente un grande merito, ovvero quello di entrarti in testa, che tu ne abbia voglia o meno: tutto lo scorrere del disco è confortevole, anche quando si rende più avventuroso o più ostinato, un po’ come quando trovi alla tv quel film d’avventura che hai amato tanto da bimbo e, anche se non hai proprio il tempo, finisci di nuovo immobile davanti alla televisione a guardarlo con immutato stupore, magari recitando anche qualche battuta. “Habitat ” è questo e molto altro, e proprio come un habitat, un ambiente, avvolge e confeziona sensazioni e ritmi del tutto naturali, che non hanno bisogno di rispondere a nessuna logica se non a quella animale.
Un nuovo grande esempio di come la fantasia e la voglia non siano mai mancate in un progetto come quello dei C’mon Tigre che, giunti al quarto album, si confermano ancora e sempre un progetto dal respiro autenticamente internazionale, alla ricerca di qualcosa che vada oltre il mero suonare. È la dimostrazione, ancora, che la loro musica è un’esperienza al di là delle forme, difficile da categorizzare, ma non da carpire.
Dopo quasi dieci anni di carriera, Habitat, il nuovo lavoro dei C’mon Tigre, torna a confermare, ancora una volta, tutta voglia di mettersi in gioco del collettivo. L’album, uscito il 24 novembre con Intersuoni, è stato anticipato da due singoli, “Teen Age Kingdom” e “The Botanist“, con l’uscita di quest’ultima che è stata accompagnata anche da un videoclip, rilasciato il 15 novembre.