– di Ilaria Pantusa.
Foto Lorenzo Arrigoni –
Anticipato dai due singoli “Un grammo di cielo” e “Bambi”, il 6 marzo sarà possibile ascoltare “Urlo Gigante” (Woodworm/Universal), il primo disco solista di Giovanni Gulino.
Non proprio un esordiente, dato che si tratta del frontman dei Marta Sui Tubi, uno dei gruppi più rappresentativi della musica alternativa italiana, usciti per la prima volta nel 2003 con “Muscoli e dei”, con cui si sono subito imposti per il loro stile originale e fuori dagli schemi.
Originale e raffinato è anche questo lavoro solista del musicista siciliano, che ha in dote una delle voci più intense ed energiche nel panorama italiano.
Con Giovanni Gulino ci siamo incontrati per una piacevole chiacchierata nel cuore di Roma ed è stata anche l’occasione per scoprire che condivido la passione per i Cure con uno dei musicisti che più apprezzo in assoluto…
Partiamo dalla pausa dai Marta Sui Tubi. Sono passati quattro anni dal vostro ultimo disco, LoStileOstile (NOmusic, 2016), e quest’autunno ho potuto assistere al bel concerto del Sospeso Tour di Carmelo Pipitone, che intanto ha pubblicato un album da solista e ha dato avvio ad altri progetti. Tu cosa hai fatto in questi quattro anni? Per cosa ti sei preso il tempo?
Ho fatto un po’ di cose. Ho fatto il papà innanzitutto, mia figlia è nata cinque anni fa, quindi un anno prima che uscisse l’ultimo album coi Marta, quando contemporaneamente era diventato papà anche il batterista. Dopo l’ultimo album ci siam detti “son quindici anni che martelliamo in continuazione, prendiamoci un annetto in cui ognuno si fa gli affari propri”, quindi Carmelo si è messo subito al lavoro con mille progetti, io mi sono occupato di Musicraiser, che è una piattaforma di crowdfunding, poi nell’ultimo anno ho fatto il direttore artistico per una piccola casa discografica che si chiama Futurissima, con cui abbiamo lanciato diversi artisti, tutti all’esordio discografico. È stata una bellissima esperienza per me, perché mi ha permesso di studiare a fondo le nuove tendenze, i nuovi vagiti degli artisti ventenni, confrontarmi con loro, capire cosa ascoltano, le loro radici, le loro aspirazioni.
Qualche nome?
Ad esempio Joe Elle, questa ragazza di Torino che è bravissima e molto promettente, Avex, che è un rapper italo-etiope, che sta a Bologna. Abbiamo pescato da generi diversi ed è stato un lavoro molto stimolante.
Tornando invece a te, quando nasce l’idea di Urlo Gigante?
Dopo il primo anno di pausa, visto che non c’era nessun tipo di progettualità sui Marta, mi son detto di iniziare a pensare a qualcosa extra-Marta, e in questi anni in cui non è uscito nulla, io a casa ho continuato a scrivere, perché è una cosa di cui non posso fare a meno. Un anno fa ho conosciuto Fabio Gargiulo, che è il produttore dell’album, e io avevo già un bel po’ di spunti.
Dall’ascolto infatti si percepisce che il disco è composto da più momenti, anche diversi fra loro, a livello di testi.
Sì, è un disco che è stato costruito con molta calma, senza nessuna pressione, scritto soprattutto nelle ore notturne, quando tutti dormivano, io mi mettevo in soffitta e lasciavo andare la fantasia.
Nell’ultimo anno ho tirato le fila di tutte le canzoni che avevo scritto e le abbiamo finalizzate con Fabio Gargiulo e con Andrea Manzoni, che è il mio pianista ed è la persona con la quale ho scritto quasi la metà dell’album.
Quanto dei Marta Sui Tubi c’è in questo lavoro?
Una certa attitudine nello scrivere sicuramente è quello che è un po’ il marchio di fabbrica e in più Carmelo ha suonato in diversi pezzi del mio disco, anche se la chitarra qui non ha un ruolo di primo piano come ce l’aveva nei Marta, ha piuttosto un ruolo di arrangiamento. Carmelo l’ho voluto fortemente, anche perché siamo in ottimi rapporti, non è che abbiamo litigato, siamo dei musicisti che stanno facendo un percorso parallelo in questo momento.
In ogni caso quello per Urlo Gigante è stato un lavoro completamente diverso rispetto a quello che facevamo coi Marta. Con loro si andava nello studio di registrazione, il disco era già nelle nostre teste e ognuno sapeva le proprie parti, gli arrangiamenti erano già pronti e strutturati, quindi entravamo in studio e in una settimana si chiudeva tutto.
Invece con Urlo Gigante il lavoro è stato fatto nello studio di registrazione, facendo svariati tentativi anche a livello di sound: abbiamo provato a far suonare lo stesso pezzo in tanti modi diversi, fino a quando non trovavamo la quadra che ci piaceva.
L’idea era quella di staccarci dall’immaginario dei Marta e cercare di creare un sound nuovo e diverso. Certo il mio modo di cantare è quello e ci sono dei punti di contatto col mio passato, ma sono contento di quello che è venuto fuori, credo che sia un disco che vale la pena ascoltare.
Urlo Gigante è un disco che non tradisce la complessità a cui chi ti segue da sempre è abituato, anzi direi che è un crescendo di azzardi nelle sonorità e negli arrangiamenti e si sente che ti sei divertito giocando con la tua voce, penso per esempio a Dormiveglia. Hai anche sperimentato molto, virando su un sound più elettronico. Riesci a fare un rock che vira anche verso un pop d’autore, riesci ad essere raffinato e accattivante, ma anche fuori dagli schemi, risulti nuovo, ma anche riconoscibile.
Era qualcosa di voluto? Quanto è stato calibrato questo risultato a livello di sonorità?
I pezzi, quelli che ho fatto soprattutto con Andrea Manzoni, sono nati piano e voce e per molto tempo li abbiamo suonati piano e voce in altre versioni, però l’idea di fare un disco in cui il piano fosse l’elemento centrale era un po’ pericolosa, perché si rischiava di prendere una deriva un po’ troppo cantautorale classica, cosa che aborro (ride)… Amo il cantautorato, ma per certi versi non voglio essere messo nella categoria dei cantautori, non mi interessa quella roba lì, mi piace più sperimentare e guardare verso il futuro.
Molti di quelli che erano gli arrangiamenti iniziali sono cambiati, sono sfumati, abbiamo sostituito il pianoforte con altre tastiere, con dei synth e con dei suoni molto moderni e soprattutto con delle sonorità che non esistono in natura, nel senso che molti dei suoni dell’album, quelli di sottofondo, sono stati generati attraverso l’uso di tante macchine, collegati fra di loro, effettati usando il plug-in, quindi li abbiamo lavorati a mano. È stato un lavoro veramente nuovo per me, perché con i Marta il suono di base era chitarra, batteria e voce e tanta energia, qui è stato tutto molto diverso. Anche le batterie per esempio sono state prima concepite in studio, con le sequenze, con le drum machine e poi replicate in studio di registrazione con una batteria vera e propria, quindi anche le parti ritmiche sono un mix fra le parti elettroniche e quelle acustiche, e la stessa cosa per i bassi. A me piace molto questa commistione tra suono elettronico e suono acustico.
Pensavo che fare musica elettronica fosse più semplice e mi son dovuto ricredere, perché c’è uno studio gigantesco sulla parte elettronica: tieni conto che un suono midi è un suono che non ha nessun tipo di personalità, perciò una volta trovato il suono, il produttore bravo gliela dà e per farlo c’è tutta una scienza dietro.
Parlando delle tematiche che affronti, mi sembra che il tema principale del disco abbia a che fare con un mondo molto intimo. Qual era l’esigenza più forte da comunicare ed esprimere?
Essere sincero con me stesso. In questi anni non ho fatto grandi viaggi, quindi ho avuto stimoli che mi sono arrivati più che altro dal vissuto di tutti i giorni, dalla mia famiglia. È un disco abbastanza intimo, in alcuni pezzi si parla di rapporti difficili, magari col partner, perché inevitabilmente accade che ci siano momenti complicati, come ci sono quelli di slancio affettivo ed emotivo. È stato un po’ un viaggio dentro me stesso, per cercare di capire come mi collocavo nella mia sfera di relazioni, nel senso che io sono contemporaneamente un uomo, un compagno, un padre, un figlio e quando a tua volta hai un figlio ti rendi conto di tante cose che i tuoi genitori ti hanno detto e che in quel momento non hai capito, quindi rivaluti determinati rapporti e determinate scelte. È stato un lavoro molto cerebrale.
Il disco si intitola “Urlo gigante”, un’immagine che definirei sinestetica. Da dove viene questo titolo?
Mi sono divertito qualche tempo fa ad anagrammare il nome di mia figlia, Greta Gulino, ed è venuto fuori “Urlo gigante”, mi è piaciuto e quindi mi son detto che doveva essere il titolo dell’album, anche se ancora l’album non c’era. Mi piaceva come immaginario, perché sono anche uno che urla, uno dei pochi cantanti che usa la voce in modo energico, però l’urlo gigante è anche il primo vagito di un essere che nasce, essendo legato anche al mio debutto, quindi mi piaceva l’idea che potesse rappresentare uno sfogo e una presa di posizione. Poi sai quando una cosa ti piace non stai lì a ragionarci troppo, sei convinto e basta.
E perché invece la copertina, in cui c’è un fiore che nasce da una mano, riprende un verso di Albergo ad ore, in cui dici “E io ho tanta tanta fame di magia/ ed un fiore mi cresce sul palmo”?
Come rappresentare un urlo gigante? Quello è stato un bel viaggio che ho fatto coi ragazzi della casa discografica, cercando un’immagine che non fosse banale, anche perché non volevo mettere la mia faccia in copertina, perché non è un’idea che mi fa impazzire, quindi di tutte le immagini che ci sono nel disco, questa del fiore che cresce su un palmo mi sembrava la più originale. Inoltre è anche un fiore un po’ digitale.
In Lasciarsi insieme ospiti la meravigliosa voce di Veronica Lucchesi de La Rappresentante di Lista. L’unica collaborazione del disco, oltre a quella con Davide Rossi che ha arrangiato gli archi. Come nascono questi incontri e perché hai voluto proprio loro due? Li porterai con te sul palco durante il tour che partirà da Bologna il 21 marzo?
Nel tour no, sarà difficile, anche perché Veronica ha già il suo tour, però non è escluso che magari qualche capatina in qualche data possano farla, magari spero soprattutto a Milano o Roma, vediamo un po’, ci stiamo lavorando.
Veronica secondo me è un talento straordinario, ha una delle voci più interessanti e con più personalità a livello femminile in Italia. Io ho sentito il disco de La Rappresentante di Lista (Go Go Diva, Woodworm, 2018, n.d.r.), e mi è piaciuto tantissimo. Tra l’altro è stato prodotto dal mio stesso produttore, quindi ho ascoltato molto quel disco per capire anche che tipo di suono potevo aspettarmi e di conseguenza mi sono appassionato molto al lavoro fatto dal gruppo. Il loro è un rock molto contemporaneo, moderno e non scontato, contaminato. La voce di Veronica mi ha subito stregato e la prima e l’unica che mi è venuta in mente per il featuring è stata lei. Se non avesse accettato non so se avrei continuato a cercare qualcun altro.
Tu hai collaborato con tanti artisti, sia in passato quando coi Marta Sui Tubi avete lavorato per esempio con Lucio Dalla, ma anche per conto tuo, penso al featuring con Gnut in Fiume lento o anche agli Underdog, quando sul palco dell’Auditorium Parco Della Musica qualche anno fa avete reinterpretato L’abbandono. Inoltre mi dicevi di aver lavorato con giovani artisti per Futurissima e suppongo che tutte queste esperienze ti abbiano dato l’opportunità di avere uno sguardo privilegiato sul panorama musicale italiano degli ultimi anni. Cosa pensi della musica italiana di oggi? Cosa ti piace e cosa non ti piace invece?
Eh, bella domanda. È cambiato moltissimo da quando abbiamo iniziato con i Marta. Quando siamo usciti non esisteva ancora quel movimento che in seguito è stato chiamato indie, ma all’epoca la musica alternativa e indie partiva da quello che avevano fatto Afterhours, Verdena, Marlene Kuntz, grandissima musica che aveva le sue radici negli anni ‘90 e che nei primi duemila chi faceva musica tentava di emulare, altrimenti si buttava sullo ska. Il progetto dei Marta è nato nel 2003 con l’idea di far qualcosa che fosse fuori di testa, il primo disco era chitarra e voce e poco altro e abbiamo fatto delle cose che abitualmente non si fanno con chitarra e voce e questo un po’ ha smosso le acque e ci ha posizionato su un piano di “fuori di testa” della situazione, ma non copiavamo nessuno e questo è stato il punto di partenza. Dopodiché è cambiato tantissimo, è venuto fuori l’indie, l’hip hop ha incominciato a ramificarsi in vari sottogeneri e a trovare una sua identità precisa anche a livello italiano, c’è l’esplosione della trap, quest’ultima è qualcosa che mi appartiene poco, ma penso che a livello di attitudine ed estetica – non di genere o di stile – abbia dei punti di contatto con il punk di fine anni ’70, quello di chi rivendicava di non saper cantare e di non saper suonare ma nonostante ciò voleva fare il musicista e suonava. Oggi anche se non sai cantare e non sai suonare uno strumento puoi fare il trapper. Allora inoltre c’erano le creste, oggi ci sono i tatuaggi in faccia. È un movimento di rottura che non so quanto durerà, ma sicuramente si evolverà.
La cosa che non mi piace della musica di oggi è quest’idea di perseguire ad ogni costo il singolone, quindi ragionare nell’ottica non di un album attraverso cui ti mostro tante facce di me, ma sparo dei colpi che devono giungere al bersaglio per forza, cercando di inseguire il gusto del pubblico e rinunciando a proporre invece qualcosa di nuovo. Si cerca il ritornello facile, il lessico è da quinta elementare, ecco, a me questo non interessa, non è musica per me, ma costume, intrattenimento. Invece io credo che la musica sia una forma d’arte e come tale deve essere studiata, richiede applicazione.
Parlo per me, ma tutti i dischi che mi hanno influenzato a livello artistico e umano sono dischi che inizialmente non ho capito e che ho dovuto ascoltare più volte. È stato così con i Radiohead e da ragazzino coi Pink Floyd. Ascolto dopo ascolto me ne sono innamorato e ho capito la grandezza di una composizione. Oggi i ragazzi, non comprando più il supporto fisico, hanno la superficialità di ascoltare trenta secondi di una traccia e se questa non corrisponde ai propri standard la si salta e finisce lì.
Ecco, ti volevo proprio chiedere se questo tentativo di inseguire il singolone, per intercettare il gusto del pubblico, possa dipendere dal fatto che, cambiando i supporti, cambia anche il modo di ascoltare la musica. E quanto chi fa musica deve lasciarsi influenzare da queste dinamiche?
Secondo me non bisogna farsi influenzare da nulla. Uno che vuol fare musica a tavolino cercando di inseguire il trend del momento non è un musicista, ma è un esperto di marketing che sta facendo un’operazione commerciale. Questa è una cosa veramente lontana dal mio modo di pensare. Io ho sempre pensato, invece, che un musicista è in primis un artista che ha un’urgenza espressiva, cercare di fare la musica che fanno gli altri è uno sport che a me non interessa.
Non so quanto il supporto determini l’attaccamento all’artista e alla musica, fatto sta che quando l’unico modo per ascoltarla era avere il cd, la musicassetta e il disco, era un po’ come quando eri un bambino e avevi i tuoi giocattoli, quindi dovevi tenerli in ordine, fare in modo che non si deteriorassero, averne cura.
Oggi questo non esiste più, molti fanno anche fatica ad ascoltare un album intero di mezzora o quaranta minuti, molti ascoltano musica in maniera passiva attraverso le playlist, perché spesso questo è il modo in cui viene propinata la musica. Io quando ero ragazzino prendevo il vinile in mano e passavo le sere a leggere i testi e a studiarli. Ho imparato l’inglese grazie alla musica, perché non capivo i testi dei Cure, allora prendevo il vocabolario di inglese e mi mettevo lì a tradurre ogni singola parola. Forse prima c’era più tempo per ascoltare la musica, perché c’erano meno alternative, come la tv, il libro da leggere o la telefonata da fare. Oggi invece il tempo materiale per dedicarti all’ascolto appassionato di un album fai fatica a trovarlo.
Chiudiamo con un’ultima domanda sui progetti per il futuro. Quanto spazio c’è per la carriera solista e per i Marta Sui Tubi?
Eh, chi lo sa! Adesso sta per uscire il mio album e sono presissimo da questa nuova avventura. Ho messo su una band tutta nuova e suonerò con Fabio Gargiulo, Andrea Manzoni, Mattia Boschi e Nick Lamberti.
Ho già tutta una serie di spunti nuovi a cui ancora devo mettere mano, non ne ho avuto il tempo, perché dovevo fare delle scelte e concentrarmi su alcuni pezzi piuttosto che su altri, perché alcuni sono rimasti fuori, altri sono a metà e sono ancora da lavorare, ma non vedo l’ora di finirli e di continuare a scrivere. Questo è quello che voglio fare, poi quello che succederà non lo so.
Spero che ci sia spazio per chi vorrà ascoltare cose nuove che in qualche modo hanno a che fare con i Marta, di cui sono pure autore, perché si tratta di due mondi molto vicini.