– di Riccardo De Stefano.
foto in analogico realizzate dalla band –
Emersi dalla provincia di Caserta, i Gomma hanno scelto di bypassare tutte le mode del momento e di puntare dritto al cuore della faccenda: cantare di drammi umani senza paraculaggine, senza cedere alle mode del momento fatte di pop o trap. Chitarre, punk e drammi umani sono alla base di Sacrosanto, secondo lavoro per la band che ha imparato a crescere. Ne parliamo con Giovanni, chitarrista e autore della band.
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Gomma: un album e poi il palco dello Sziget, tra gli altri. Poi Sacrosanto.
Tutto molto veloce: esistiamo da due anni, dalla fine del 2016. Da una parte mi fa piacere, ma non so se aver saltato la “gavetta” sia controproducente. In fondo fare 200 date in un anno e mezzo ci hano fatto correre abbastanza, ma rimaniamo lontani dai traguardi. Non miravamo allo Sziget e non puntiamo a nulla con questo disco. Indipendentemente da come andrà è qualcosa che ci ha arricchito e fatto crescere, e va bene così.
Si dice che sia difficile emergere dal Sud. È vero?
Ad essere razionale non saprei dirti. A differenza di chi stava intorno, noi non ci siamo posti alcun obiettivo e forse è il segreto, perché ti rende più libero, e la gente lo percepisce come “vero”.
Avete vissuto l’ambiente campano musicale?
Frequentavamo spesso lo SMAV, vicino Caserta, dove si radunava gran parte della “scena”, se vogliamo chiamarla così. Abbiamo visto i Ministri, i FASK, il Management del dolore post operatorio, tutte band che abbiamo trovato vicino a noi e con cui abbiamo anche suonato. Respirando quell’ambiente è stato strano ritrovarcisi dentro. Quando vai a vedere una band che ti piace, e suoni per divertirti, non ti aspetti di arrivare sui loro stessi palchi.
Come vivete questo momento di “professionalizzazione”? Finché la musica è un hobby va tutto bene, poi aumentano le responsabilità.
Lo spirito spero non sia cambiato. Quando abbiamo iniziato a scrivere Sacrosanto, non abbiamo mai pensato al pubblico. Ci piace interagire coi fan, rendere il live un momento collettivo, ma non abbiamo alcuna intenzione di fare qualcosa mercatista, non abbiamo niente di mainstream, anzi, necessitiamo di un certo livello di concentrazione. Non è musica per tutti.
In un mondo di synth pop e trap, vi muovete con le chitarre.
Suono la chitarra perché è lo strumento che so suonare meglio, diventato lo strumento centrale perché l’unico armonico nei Gomma. Ma è come un martello o una pialla, serve a uno scopo: poi se fosse un computer non cambierebbe nulla per me, mi approccio ai generi in maniera elastica, non mi interessa inglobare qualcosa in una categoria. I generi almeno da 50 anni si sono mischiati. La nostra musica si rifà al punk, all’emo, che ha visto una fioritura negli anni ‘90, un’epoca lontana da noi. Ma è una scelta casuale, mi piace il mio strumento e artisti che appartengono a un’epoca non vissuta.
Pensi che ci sia il rischio di prendere un solo aspetto banalizzato oppure è rileggere dei temi in chiave più contemporanea?
Tutta l’arte è rielaborazione di qualcosa, nulla nasce da nulla. Valorizzare quello che ti ha affascinato portandolo nel momento in cui vivi è importante. Una delle band che lo ha fatto meglio sono gli Idles, di Bristol, che non fanno nulla di originale, ma affascinano perché attualizzano quel linguaggio per parlare di cose attuali. Nel loro caso è la sociopolitica britannica, in Sacrosanto è più una riflessione spirituale. Cercare di trovare un incontro con l’epoca e la società in cui vivi è importante, altrimenti diventi un jukebox fatto male
di cose vissute prima.
I generi sono frullati e mischiati. Pensi che cambiando strumenti cambierebbe il messaggio?
La scrittura non è legata allo strumento con cui crei. Quando vai a suonare, come noi, basso, batteria e chitarra hai dei limiti dati dallo strumento, quindi la scrittura va da una parte. Ma per l’aspetto testuale e certe atmosfere dipende dalla nostra vita. Il fatto che suoniamo certi strumenti non influisce come pensiamo.
Hai ripetuto più volte come non avete mai “puntato” o “sperato” in nulla. Modestia o nichilismo?
Non è facile rispondere. Condividere la nostra musica ci riempie il cuore ed è uno dei motivi per cui suoniamo. Se dovessi scrivere canzoni per cantarmele da solo, avrebbe un altro valore, attenuato, rispetto alla condivisione. Ma non possiamo ricercare il mercato o la fama, perché non ci permetterebbe di esprimere i concetti che vogliamo, legati ad eventi
drammatici, e non si concilia con quello che il pubblico vuole. Molta della musica che si fa oggi è intrattenimento, e non è una cosa sbagliata, ma bisogna distinguere l’intrattenimento musicale, che va a braccetto col marketing, rispetto quello che cerca di elevarsi verso una forma artistica.
Una sorta di art punk?
Sì anche se è triste che qualcuno debba dirselo da sé, dovrebbero essere gli altri. Poi da parte mia non c’è alcuno svilimento di nessun tipo di musica. Per Sacrosanto mi sono accorto che l’ispirazione è venuta da certe colonne sonore di film, horror, thriller, che sono musiche commissionate, come Cosa avete fatto a Solange di Morricone. Sono commerciali? In ogni caso hanno un valore immenso. Ci sono molti artisti pop che riescono a essere popolari ma hanno un grande valore artistico. Uno come James Blake è un artista, senza
arrivare a citare Beatles o Beach Boys.
Sacrosanto è “una riflessione spirituale”. Anche se c’è molto dramma: come mai rispondere ai drammi con questa spiritualità?
Alla fine del tour ci siamo presi una pausa a tempo indeterminato. Vivevamo in una bolla, una vita parallela che ti estranea dalla tua vita e dai rapporti personali. Così ci siamo fermati, accorgendoci che in nove mesi abbiamo capito qualcosa: siamo diventati molto diversi. La crescita è stata una riflessione spirituale su cosa abbiamo fatto noi per noi stessi e per le altre persone in questi anni. La maggior parte delle canzoni che scrivo da me fanno riferimento a cose passate da anni, come Tamburo, che non sono mai riuscito a metabolizzare direttamente. Era un pretesto per capire che dovevo cambiare certi sistemi di valori e di pensiero. Non so se ci sto riuscendo, ma per adesso ho la coscienza più a posto.
La musica fa metabolizzare questo male o lo allontana?
Entrambe le cose. La parte più importante è il processo che avviene da quando hai un’idea e poi la concretizzi in parole o musica. Il senso però è anche l’estraniamento dalle cose in cui vivi: sono passati 11 mesi da quando abbiamo scritto il disco, e quando lo suoneremo e la gente l’ascolterà farà più parte di loro che di noi. Vivo intensamente questo processo di produzione e alienazione: il tour fa condividere quelle canzoni e me ne fa sentire meno il peso, come aver passato il testimone a qualcun altro.
Il disco si apre con una messa che si aspetta e infine in Santa Messa finisce. Emerge il tema della morte, del funerale, del suicidio. In che modo?
Non c’è un percorso narrativo stretto, ma siamo affezionati all’album piuttosto che ai singoli, così le canzoni hanno una loro coerenza. Mentre in Toska ci siamo accorti che avevamo un metodo di scrittura più spontanea, direi più casuale, dove bastava che qualcosa piacesse per andare nel disco, qui ci siamo trovati a scartare pezzi che ritenevamo validi ma che non c’entravano con quello che volevo dire. Potevamo mettere più influenze, ma abbiamo preferito dire una cosa in maniera chiara per essere trasparenti con noi stessi.
Un modo per manifestare una “debolezza”?
Sì, esattamente. I gruppi che mi hanno emozionato condividevano le loro debolezze: ok siamo tutti sulla stessa barca, non sono solo, possiamo darci una mano per andare avanti. Ho capito che la cosa più importante è metterti a nudo, senza vergogna, piuttosto che nascondersi è meglio darsi una mano.
L’immagine della casa, o di un ambiente domestico, appare più volte: è una casa dove non si conosce chi ci vive e ci sono più mancanze che assenze. Cercate una nuova “casa”?
C’è la consapevolezza di essere cambiati: ogni qualvolta c’è il concetto di “casa” nel disco, viene abbandonata o percepita come non propria. È una metafora di un periodo di una vita o di certi pensieri che abbandoni, anche soffrendo, perché spesso cambi senza accorgertene e devi capire che non sei la persona di 5 o 10 anni fa, e devi adattarti a quello che sei adesso. Anche i nostri rapporti interni sono cresciuti, un po’ perché abbiamo convissuto insieme, ma Gomma è diventata una famiglia parallela: vedevo più loro che la mia famiglia.
Il senso di Sacro e Santo è storicamente contrapposto al profano. Voi siete persone spirituali o religiose?
I termini che utilizzamo fanno parte, volenti o no, della cultura cattolica, ma nessuno di noi ha maturato una coscienza religiosa in senso stretto. Più un senso di spiritualità, l’aver capito che ci sono delle forze che ci muovono in qualche direzione. Poi anche voler diventare “maestri di se stessi” quando ti trovi in una crisi e l’unica opzione è volercela fare da soli, perché nella tua vita rimani da solo da quando nasce a quando muori.
La tua generazione in questo sacro e profano si trova più a casa nel secondo. Come vedi i tuoi coetanei? A cosa porta questa mancanza di speranza?
Vedo molta rassegnazione involontaria, almeno tra i miei coetanei, dove certi argomenti hanno perso interesse. Tutto è preso in maniera più distaccata e ironica, che non per forza è male. Però è una cosa che cerco di non fare: non è giusto che chi riceve come artista l’attenzione di certe persone si concentri solo sul lato individualistico e parli solo della sua vita. Se tu parli di te stesso devi far sì che venga indirizzato per uno scopo. Abbiamo delle idee e forse è un enorme predicone, ma per noi è importante.
Come pensi che potrai rileggere e rivivere questi momenti cristallizzati quando lo riascolterai dopo tanti anni?
Per me è già un disco vecchio. È come vedere una fotografia da bambino: sai che sei tu ma ti sembra un’altra persona, una foto bella, ma anche lontana.
Se Sacrosanto fosse una colonna sonora, di quale film ti piacerebbe?
Di un qualche film thrilling anni ‘70/’80 con riflessioni su temi non banali, come la spiritualità e la sessualità. Per esempio Non si sevizia un paperino.
Quando il disco finisce e la messa viene celebrata cosa rimane?
Quando abbiamo scritto Santa Messa ci siamo resi conto di aver fatto il predicozzo. L’ultima frase, seppure cantata con intensità, è ironica. Quando ero piccolo trovavo la messa noiosissima e quando arrivava la frase “la messa è finita” mi sentivo liberato. Vorrei che lo stesso sentimento di liberazione avvenga nell’ascoltatore, arrivato a fine album.