– di Martina Rossato –
“996 – Le canzoni di G.G. Belli” è il nuovo progetto degli Ardecore, band nata a Roma nei primi anni 2000 dall’idea del cantauore folk blues Giampaolo Felici.
Attraverso un doppio album digitale, pubblicato per La Tempesta Dischi in distribuzione Believe, gli Ardecore hanno fatto sentire la voce della città di Roma come descritta nei sonetti del Belli, uno tra gli autori più rappresentativi della letteratura romana. Il progetto è molto ampio e l’unico supporto fisico è dato da un libro, edito da Squilibri. Tra le sue pagine troviamo i testi con le note autografe del Belli, le nuove partiture dei sonetti musicati, le illustrazioni curate da Scarful, Ludovica Valori, Marcello Crescenzi e Claudio Elias Scialabba, originali per ogni canzone e l’importante prefazione di Marcello Teodonio, il più autorevole studioso belliniano e presidente del centro studi G.G. Belli.
Incuriosita da questo progetto così complesso e interessante, ho raggiunto telefonicamente Giampaolo Felici.
Roma è una città con un’identità artistica, culturale e umana molto forte. Come non parlare di questa romanità? Cosa vi spinge a cantarla e suonarla ancora oggi?
È un discorso che nasce spontaneo: tutto il movimento folk non solo romano, italiano e mondiale, non può non partire dalla radice di ognuno. Roma è la nostra città e quando si affronta un certo tipo di dinamiche nella musica, viene naturale rimanere molto legati alla tradizione. Come Ardecore abbiamo sempre arrangiato in maniera particolari i temi delle canzoni storiche, portando delle novità: una ritmicità diversa, ad esempio.
Quando negli anni 2000 abbiamo cominciato a suonare pezzi già esistenti, partendo da brani risalenti al pre guerra, ci siamo riallacciati al movimento internazionale e soprattutto americano che prevedeva il recupero di tutta la tradizione folk. Abbiamo fatto un parallelo rispetto alle nostre radici e ci siamo trovati ad affrontare la nostra musica.
Parli del primo album?
Sì, in quel caso era il primo album. Lì abbiamo suonato brani molto scuri, noir, legati alla morte, al dramma. In quel momento era un controsenso rispetto all’idea tipicamente associata alla musica romana, inquadrata come goliardica e “cazzara”, scherzosa, da legare a una cena o un pranzo. Storicamente l’antico festival della musica romana che si svolgeva a San Giovanni tra fine ‘800 e fino ai primi del ‘900 era effettivamente molto legato al culinario.
Noi abbiamo preso la musica e abbiamo cercato di trovare i temi i più blues possibile e da lì in poi è uscito un disco che definimmo come murder ballad. Lo abbiamo registrato tra il 2003 e il 2004 ed è poi uscito nel 2005, da lì in poi ci siamo trovati a crescere. In quel momento era abbastanza strano per il percorso nostro, per l’ambiente molto alternativo ed underground da cui uscivamo, andare ad affrontare quei temi con il folk, quindi è stata tutta una sorpresa e siamo andati avanti. Nell’arco degli anni abbiamo affrontato il tema anche con album che non erano legati al recupero di canzoni vecchie, ma rimanendo su quella cifra sonora con brani originali. Adesso siamo arrivati a toccare testi di un’icona: Giuseppe Gioachino Belli è il nostro poetante, il poeta della lingua romana. Prima del Belli non era possibile parlare di lingua romana.
Una delle domande che volevo farti era perché avete scelto proprio Belli, ma in parte hai già risposto.
Sì, e un altro aspetto che ci attrae è che Belli ha fatto parlare il popolo: i suoi testi sono monologhi di personaggi di quella società. Si parla della prima metà dell’Ottocento, prima ancora dell’unificazione. La sua importanza è venuta fuori più avanti infatti, perché i suoi testi sono la fotografia di una società che poi non ci sarebbe più stata. La Roma che all’epoca contava 250mila abitanti è praticamente scomparsa. Oggi quasi il 10% degli italiani vivono a Roma e dintorni [ride, ndr], è chiaro che il cambiamento nella società sia stato enorme.
Rispetto ad altre città, a Roma però questa identità “popolare” è abbastanza sentita. Questo si rispecchia anche nel dialetto, che è ancora parlato.
Come dice il proverbio “L’italiano è lingua toscana in bocca romana” [ride, ndr]. Questa frase definisce come si è arrivati a parlare di italianità, dal Petrarca a Dante, passando per la lingua romana. Il dialetto di Roma ha moltissimo in comune con la lingua italiana, a differenza di quello parlato ad esempio a Napoli, in Salento o a Milano: sono lingue ricche di vocaboli difficilmente comparabili con la lingua italiana.
Tornando all’aspetto musicale, siete un gruppo che si pone in continuità e frattura rispetto alla tradizione. Cosa vi piace cambiare e cosa mantenere, rispetto alla tradizione?
Tutti i musicisti che hanno preso parte o sono nel progetto hanno una provenienza musicale diversa. A volte molto alternativa, sperimentale, di improvvisazione. Quel tipo di background ci porta molto lontano dalla tradizione. Affrontiamo la musica sempre con un’idea nuova, innovativa e straniante rispetto a quello che ti potresti aspettare da un gruppo folk.
Quando facevamo cover volevamo mantenere l’aspetto legato all’emozione che l’autore voleva trasmettere, che è parte integrante del folk come anche radice del rock. L’aspetto emozionale va sempre guardato, se no si lavora solo sulla tecnica e diventa poco interessante.
Poi un conto è lavorare su un brano scritto di proprio pugno o comunque contemporaneo, ma diventa ben diverso quando si tratta di un brano antico. Come è stato, nel concreto, lavorare a questo disco?
Tecnicamente ti porta ad affrontare la musica in modo diverso. Intanto, il sonetto sono due quartine e due terzine: non ci sono ritorni. Bisogna mantenere intatto il significato del sonetto e riproporlo, anche senza ritornelli. Questo impone una struttura della canzone molto diversa da quella della musica pop. Per fortuna!
L’idea di “rinnovare” il sonetto ti pone di fronte alla possibilità di sperimentare strutture ogni volta diverse: può sembrare assurdo ma rispettando l’originale vengono sempre fuori nuove strutture. Per certi versi, è stato quasi comodo lavorarci… comodo fino a un certo punto perché si ponevano altri problemi. La maggior parte dei sonetti del Belli – come ti dicevo anche prima – sono monologhi. Volendola rendere una canzone è più complicato ottenere un risultato che renda bene l’originale. Tanti termini sono obsoleti, molto spesso il sonetto cerca – essendo molto romano – di trovare nell’ultima terzina una morale, che in qualche maniera possa sembrare comica. Ma comica non è, se mai è un modo di sfatare una certa drammaticità. In quel periodo c’era una differenza molto marcata tra classi sociali: i sonetti parlano di un popolo che esprime una certa critica rispetto alla società. Tanti testi finiscono ad effetto, ma dopo duecento anni non sono facili da rendere.
C’è stata anche una grande scelta da fare. Ha scritto moltissimi sonetti, più di 2000. È vero che sono corti, quindi fino a quando non siamo arrivati a una decina di brani non avevamo nemmeno un’idea che il progetto potesse andare in porto. Una volta entrati nella dinamica, è diventata una cosa fattibile, è stato piacevole.
È un lavoro comunque ampissimo! Il disco è doppio e avete pubblicato anche un libro: come avete lavorato alla realizzazione dell’intero “prodotto” – chiamiamolo così anche se è molto brutto come termine?
È brutto come termine, perché è proprio l’aspetto meno interessante e meno artistico di tutto il lavoro. È la parte che ci ha portati a fare in quasi vent’anni di attività solo cinque dischi – anche se due doppi, quindi potremmo dire sette in totale. Non abbiamo mai speso meno di cinque anni tra un album e l’altro proprio perché tutto questo lavoro dietro la filiera produttiva fa passare la voglia, almeno a me, che mi curo di quasi tutti gli aspetti dalla fase iniziale a quella finale. Poi coinvolgo gli altri, ovviamente: dai musicisti ai tecnici, fino alla parte di produzione, promozione, ufficio stampa.
In questo caso c’è anche una doppia produzione: la parte discografica con Tempesta Dischi e la produzione del libro con Squilibri. La parte più noiosa e antimusicale è proprio questa di produzione, infatti ci abbiamo lavorato sopra quasi quattro anni.
E l’idea del libro, di per sé?
Il libro è in realtà la prima idea. Ora qualcuno ci dice che è un peccato che non ci sia un supporto fisico all’album, ma questo non è mai nato con l’idea di essere un vinile o un CD, ma soprattutto come libro. L’idea è di far parlare la lingua romana, usando Belli come icona. Il libro conta 140 pagine, in un vinile non ci riesci a mettere tutta questa roba. C’è il lavoro di Marcello Teodonio, che ha scritto tutti i libri e tutte le prefazioni del Belli negli ultimi vent’anni, ci sono le note del Belli stesso che descrivono il contesto storico dei sonetti, ci sono le partiture, il nostro lavoro. Ogni canzone ha anche la sua copertina, realizzata dai quattro illustratori, che hanno fatto un lavoro eccezionale. Tutto il progetto nasce dal libro. Che poi abbia dentro dei QR da downloadare per sentire lo streaming, è la cosa che lo conclude: mentre si legge il libro, si può ascoltare la canzone. In un secondo momento magari lo trasformeremo in un CD doppio o in un vinile – in vinile sarebbe triplo, tra l’altro, perché non c’entra tutto, quindi ancora più complicato [ride, ndr].