– di Riccardo De Stefano –
Il mondo in realtà è fatto a scatole.
E ogni scatola segue delle proprie leggi e delle regole, che tu voglia o non voglia: se stai dentro quella scatola, quelle leggi e regole le devi rispettare.
Una scatola davanti a cui siamo tutti in questi giorni è quella della televisione e dentro questa scatola, ce n’è una più piccola, quella di cui tutti stiamo parlando, quella di Sanremo. Una scatola che di anno in anno si riempie e si svuota di cose, di persone, di meme, di gag, di personaggi, cantanti, attori, vallette, valletti, presentatori artistici, giornalisti, orchestrali, ospiti e in teoria musica.
Ognuna di queste cose sembra sempre uguale e sempre diversa. Sempre uguale perché le leggi di questa scatola ci dicono che Sanremo è un grande prodotto nazional popolare e deve accontentare tutti; sempre diverse perché è difficile vedere due volte le stesse persone sul palco (tranne quei nomi che finiscono per diventare ospiti fissi, tipo Achille Lauro, e sappiamo l’effetto che crea).
Immaginate che sorpresa e che piacere vedere Giovanni Truppi tra i nomi dei partecipanti quest’anno.
Giovanni lo conosciamo da tanti anni e lo amiamo da altrettanti. Cantautore sui generis, timidissimo e unico, personalissimo e universale, è riuscito a racchiudere una forma canzone senza precedenti (e sicuramente senza epigoni), rifiutando qualsiasi logica commerciale e mainstream preconfezionata per abbracciare una propria visione della musica che non ha niente da invidiare ai grandi cantautori di ieri, oggi e anche domani.
Giovanni non è un ragazzino, ha più di 40 anni, ha cambiato tre città (almeno) e tante etichette discografiche, approdando infine nell’ambito ma temuto mondo delle major.
Quattro dischi per quattro percorsi completamente diversi, dagli esordi di “C’è un me dentro di me” con una canzone d’autore elegante e poetica alle stravaganze lunatiche di “Il Mondo È Come Te Lo Metti in Testa”, fino a tutto l’universo raccontato nel terzo disco omonimo “Giovanni Truppi”, uscito per Woodworm e infine l’approdo in casa Universal con “Poesia e civiltà”, che mostra un lato meno folle, meno eccentrico, ma altrettanto unico e ancora libero da schemi e preconcetti.
Lo stupore e il piacere si sono sovrapposti all’orrore di immaginarsi un Giovanni Truppi standardizzato e schiacciato dentro quella scatola, lui, così grande e libero, che nessuna scatola è in grado di contenerlo. Così, arrivati alla seconda serata, il cuore inizia a battere forte immaginandosi quello che potrà succedere sul palco. Da un lato ci sono i nomi che il grande pubblico conosce, come Fabrizio Moro, Elisa, Emma… dall’altro quelli che nessuno conosce, a volte a ragione, a volte a torto.
Giovanni Truppi è sicuramente uno dei meno noti, specialmente a fronte dell’età anagrafica. Però quando si presenta sul palco si capisce subito che le cose andranno bene e non c’è nulla da temere. Scende con la sua canotta, come ha sempre fatto in questi anni, e la sua chitarra, e regala una canzone che sul quel palco forse non c’entra nulla, ma è giusto così.
“Tuo padre, mia madre, Lucia” è un piccolo percorso dentro la visione poetica e sognante di un cantautore vero e degno di questo nome, arricchita senza vergogna dalla penna di altri due autori di talento come Niccolò Contessa de I cani e Pacifico.
In “Tuo padre, mia madre, Lucia” non c’è lo stucchevole romanticismo delle becere canzoni pop, dei tanti ragazzi impomatati e vestiti bene. Non c’è lo struggente lirismo melodrammatico delle canzoni pop di chi invece cerca la commozione forzata.
Truppi porta una canzone sull’unico amore possibile: quello combattuto e conquistato giorno dopo giorno, che non si risolve nei “per sempre” irreali, ma che resiste ai colpi del quotidiano: quell’1% di amore in mezzo a tanto stringere i denti. È una canzone adulta, per adulti, per persone che devono fermarsi a riflettere su quello che sta accadendo sullo schermo, tra il varietà serale e i tempi televisivi. Che quelle parole non devono farsele scivolare addosso.
Quante parole. Ci sono tante parole, forse troppe, sicuramente molte più di quelle che il distratto ascoltatore medio può ricevere in un primo ascolto. C’è questa voce che sembra incespicare e farsi strada in questi rovi di parole che si accatastano l’una sull’altra, quasi a inseguire una luce in fondo al tunnel: quella di una speranza, quella che “un’altra musica è possibile”.
“Tuo padre, mia madre, Lucia” su quel palco non c’entra niente, perché è molto meglio di tutto quello che Sanremo rappresenta. È la prova che si può fare musica senza dover per forza di cose fingere di essere qualcun altro a tutti i costi (e questo sia di monito a tutti gli ex indie, come La Rappresentante di Lista).
È la prova che avere talento non significa per forza dover essere estranei a certi ambienti e che, per riuscire ad arrivare alle persone, non bisogna per forza annacquare la propria proposta e visione artistica in mezzo a tanta becera musica dimenticabile.
Forse una serata è troppo poco per Giovanni Truppi: sicuramente i più disattenti si saranno già dimenticati di quel ragazzo napoletano dalla parlata partenopea, dagli occhi quasi velati di timidezza che non sanno bene dove guardare e dove poggiarsi.
Ma chiunque abbia provato ad ascoltare il brano con una porticina del proprio cuore aperta non può non aver capito che questo grande autore ha tanto da dire e tanto ancora da dare. Chissà, magari questa scatola piena di tante cianfrusaglie riserverà una sorpresa per un piccolo gioiello da conservare e preservare, che è Giovanni Truppi e la sua musica.