– di Yna –
Siamo tutti uguali. Siamo tutti mostri, siamo buoni, cattivi, entrambe e nessuna delle due cose. Contemporaneamente ci allineiamo al tempo degli accadimenti e ce ne distacchiamo, ci accettiamo, sforzandoci di sfrondare i pregiudizi, unirci e raggiungerci all’appuntamento giù in platea dove non ci sono posti assegnati e gli ingressi sono tutti free. La visione è quella migliore per tutti, siamo tutti allo stesso livello a patto che ci si rispetti, ci si guardi, si veda l’altro per quello che è, non si creino attriti negativi. “We are not really strangers”, il gioco di carte utilizzato durante l’intervista di Giorgieness durante il concerto all’ ”Asino che Vola” di Roma lo scorso venerdì 19 novembre, riassume un po’ il punto: da un mazzo di carte, pescavano casualmente alcune domande, perché non c’è gerarchia nella curiosità, nell’album e ogni informazione aiuta a condire l’insieme.
Un puzzle in cui tutti i lati combaciano e si armonizzano nell’intervista per parlare e raccontare di “Mostri”, l’ultimo disco di Giorgieness uscito lo scorso 28 ottobre per Sound To Be prodotto da Ramiro Levy e Marco Olivi, scritto da lei, Giorgia D’Eraclea (Giorgieness), un variopinto percorso di consapevolezza ritrovata, forse mai veramente persa. La ricerca di sé è al centro di ogni rapporto, attraverso l’altro che diventa determinante. Allora la sfida è comprenderlo, accettare la dialettica e trasformarsi. “Come fai quello che mi fai?” Tu, come me, mi rimetti in discussione, stravolgi le linee della mia identità, stravolgi i punti fermi che credevo di avere. Allora alla fine non siamo più così uguali, ma è nella differenza che ci caratterizziamo, è in quell’isola sconosciuta che è l’altro che troviamo il vero tesoro. Al di là della retorica buonista, che vorrei accantonare per un secondo perché forse non è una prospettiva costruttiva da cui partire, in questo disco di ricerca ce n’è tanta e Giorgieness non è di certo un’artista che si esime dal farlo: lo dimostra nelle parole come nel live, una dimensione irrinunciabile di confronto con il pubblico. Il suo approccio ha molto poco di “mostruoso”, ma è ciò che di più umano e normale ci sia: il toccarsi, il vedersi oltre lo schermo, sfondare la quarta parete non è una possibilità, ma è parte integrante della definizione di “arte” che tanto rispecchia l’interazione umana.
Io invece non posso esimermi dal chiedermi: ma è possibile che dobbiamo continuamente mettere in dubbio tutto ciò e continuamente riaffermarlo per ritrovare i nostri passi? Perché perdersi continuamente per ritrovarsi? Perché siamo sempre costretti ad annullarci per riconoscerci? Perché affidarci a cose disumane per affermare la nostra umanità? Giorgia nella sua ricerca artistica ci dimostra quanto il fattore umano sia ancora troppo fondamentale per permettere che si ritorca contro di noi, e lo fa da una parte attraverso la sua modalità di approcciarsi ai concerti, prendendo una chitarra, entrando nella gente, superando dei limiti invalicabili senza paura, dall’altra proprio attraverso questo disco, nonché attraverso la coerenza della scelta del team di lavoro e della tipologia di comunicazione che lei attua per rimanere in connessione con il suo pubblico e risultare sempre credibile.