Inglese, come quel rock gentile che si accomoda dentro vellutate soluzioni melodiche. Un disco che scorre come un ricovero, come un riparo contro il caos quotidiano. Giobbe (Fabio Giobbe all’anagrafe) rinasce dalla pandemia portandosi dietro un disco denso di rapporti umani, tra fragilità e nuove maldestre connessioni di vita. “Gentle Dwellings”, uscito per la Soundinside Records, ha i colori del pastello ma anche qualche macchia di inchiostro industriale ai bordi. Scorre anche e soprattutto nelle pillole acustiche che la rete ci restituisce…
Sono dimore gentili. Sono rifugi contro qualcosa?
Quando comincio a pensare ad un nuovo disco cerco sempre di immaginarmelo nel suo insieme. Mi piace l’idea che l’intera opera sia sostenuta da un impianto tematico condiviso dalle diverse tracce. In “Gentle Dwellings” volevo che i rapporti interpersonali fossero il filo conduttore tra le canzoni. Non credo di essere stato molto fortunato nell’amicizia: rapporti umani importanti che si deteriorano o si interrompono bruscamente per difetti di comunicazione o per motivi mai discussi, rimasti sospesi ed ignoti. Ecco, pensando al vuoto lasciato da certe delusioni scottanti, immaginavo che la propria abitazione rappresentasse un rifugio in cui curarsi, distrarsi anche grazie alla comfort zone che ci si è creati. Queste “Dimore Gentili” erano tali ancora prima della pandemia che abbiamo tutti vissuto con fatica e dolore. Quando poi i vari lockdown ci hanno costretti a renderci conto dell’importanza di sentirsi al sicuro nelle proprie abitazioni, allora quel titolo che avevo immaginato tempo prima mi è sembrato quanto mai efficace.
Plana con morbidezza questo disco. Mai uno scossone. Questa dolcezza melodica che tipo di rifugio è?
La melodia è sempre stata un dolce rifugio per me, sin da bambino. In macchina mio padre ci faceva ascoltare i Beatles in cassetta. Insieme canticchiavamo quelle melodie dalle infinite sfumature: a volte allegre, altre volte malinconiche, altre piene di speranza e via dicendo. Crescendo con ascolti simili, non potevo che rifugiarmi costantemente in canzoni che fossero orecchiabili ma che rappresentassero e coinvolgessero anche diversi stati d’animo. Poi è arrivata la musica degli anni ’90, con il carico emotivo e di introspezione che facilmente fecero presa sul me adolescente. Dunque, la melodia per me resta un dolce rifugio, che cura l’anima e facilita la condivisione del mio essere.
E che bella l’immagine di copertina. Mi rimanda molto a quel certo disco dei Wilco. Ma anche il suono non è assai distante… solo perché l’immagine distorta?
La copertina e tutto il progetto grafico sono opera di Marco Normando, un amico musicista e grafico, dalla grande sensibilità artistica e con cui condivido tante passioni e tanti modi di vedere la Musica e il mondo. Marco riesce sempre ad assecondare i miei suggerimenti, dettati dal senso d’insieme del disco in questione. Poi lui traduce col suo proprio linguaggio quello che ci diciamo e che le canzoni ci dicono. Il rimando ai Wilco credo sia inconscio, essendo un gruppo che entrambi amiamo ma non volendolo scimmiottare o distorcere in alcun modo. Immagino sia un tratto del DNA che, sempre latente, è venuto fuori naturalmente. Stesso discorso per le assonanze che qualcuno potrebbe sentire ascoltando il disco.
Da poco un video ufficiale ci manca. Canzoni così ricche di un potere visionario…
Un video ufficiale è stato realizzato per “Let Me Tell You”, canzone in cui ho avuto l’onore di duettare con Mark Geary, cantautore Irlandese che amo oltre che un caro amico ormai. Non è un video visionario o un film che racconti il testo, ma si tratta di riprese in sala durante una session di registrazioni. Il video è stato diretto da Jex Sagristano e Luigi Reccia. Spero di riuscire a realizzare un videoclip che sia più simile ad un racconto, ispirato dal testo della canzone. Ci stiamo lavorando.
In rete troviamo una versione acustica di “Terrible Tides” tanto per parlare di contributi video. Ho come l’impressione che sia questa la vera natura del tutto…
Tutte le mie canzoni nascono con la chitarra acustica, poi mi diverto a condividerle con musicisti che stimo. Insieme le vestiamo con arrangiamenti, suoni e soluzioni che siano la somma delle diverse sensibilità dei vari artisti che collaborano nel processo. L’anima resta quella scarna, tutto il resto intorno è la magia che nasce dall’incontro di più persone che cercano di amalgamarsi nel condividere le proprie sensibilità musicali. Quella è una parte divertente del processo creativo, soprattutto perché è un lavoro collettivo in cui ognuno mette un pizzico della propria essenza, tutti però sempre al servizio della Canzone.