– di Giacomo Daneluzzo –
Quella di Gianni Togni è una storia singolare. Tutti lo conoscono per i suoi successi passati, che sono stati straordinari, ma di cui non parleremo in quest’articolo; nel tempo, però, è riuscito a rinnovarsi completamente, come solo i veri artisti sanno fare. Nel farlo ha trovato la propria dimensione ideale, quella dell’autoproduzione: ha fondato Acquarello, realtà discografica indipendente con cui cura la realizzazione dei propri dischi, e si è dedicato al suo percorso artistico senza scendere a compromessi, sviluppando un cantautorato elegante e sincero.
A Londra ha scoperto la passione per il musical e ha intrapreso un’apprezzata carriera di autore e compositore di musical, tra i quali figurano Hollywood – Ritratto di un divo, G & G e Poveri ma belli, inaugurando al contempo un fortunato sodalizio artistico con Massimo Ranieri.
Ed è così che arriviamo, nel 2024, alla sua ultima fatica: Edizione straordinaria, un’uscita unica nel suo genere costituita da dieci tracce ispirate a dieci storie vere, raccontate da articoli di giornale in cui l’artista si è imbattuto. Un disco sicuramente controcorrente per musiche e testi, in questo senso indipendente “sul serio”, artisticamente, e capace di raccontare un momento storico, di essere specchio dei tempi, ma anche di parlare a chiunque sia disposto all’ascolto per farlo emozionare e sorprendere.
Sono stato onorato di intervistarlo all’Ostello Bello Grande, vicino alla Stazione Centrale di Milano, prima che prendesse il treno per Roma, e mi ha regalato una conversazione piacevole e preziosa, in cui mi ha parlato del suo lavoro e delle sue passioni. Estremamente competente e consapevole, ho scoperto un artista che è anche un appassionato cultore della musica e del suono in generale, quasi un artigiano della musica e della discografia, parola da intendersi nel suo significato originale di scrittura, incisione, di dischi, nel suo senso più materico.
Ecco che cosa mi ha raccontato, dopo un’iniziale excursus sulla sua collezione di dischi e sulla produzione dei vinili.
Quali sono stati gli ultimi acquisti della collezione?
La mia lettura mattutina sono le fanzine, non solo italiane ma anche straniere, proprio perché io ho questo vizio di collezionare vinili. Ne ho più di tremila: partiamo da prima dei Beatles. Oggi continuo a comprare i dischi che mi mancano dei vecchi gruppi, però compro anche molti dischi nuovi, soprattutto indie rock americano e inglese. Un sacco di dischi li compro perché leggo le recensioni, poi li ascolto online, mi piacciono e decido di prenderli
L’ultimissimo è il nuovo dei Vampire Weekend [Only God Was Above Us, nda]. Gli ultimi che ho comprato sono quelli The Smile, Big Thief, e Fountain D.C., ma i miei eroi sono Bon Iver, che mi piace tantissimo, The War on Drugs, Wilco. Tra gli ultimi ci sono anche Iron & Wine, Julia Holter, Peter Wilson, The Clientele, che hanno fatto il disco più bello dell’anno scorso [I Am Not There Anymore, nda], boygenius. Io mi sento tutto. E prendo tutto in vinile, ovviamente.
Ascoltando i tuoi album ho pensato che una cifra del tuo lavoro sia la grande cura che si sente di ogni dettaglio, dalle scelte musicali alla parte grafica.
Lavoro moltissimo ai dettagli. I miei collaboratori dell’Acquarello, la mia etichetta, li ho scelti perché fanno delle cose particolari, lavorandoci anche a lungo. Per quanto riguarda la parte grafica io sono pazzo per le copertine, perché sono nato in un mondo in cui si andava nei negozi di dischi e non c’era internet, quindi la prima cosa in cui t’imbattevi di un disco era la copertina. Ricordo che comprai The Courtain of the Crimson King dei King Crimson e Aqualung dei Jethro Tull perché ero rimasto colpito dalla copertina. E quella è rimasta per me una cosa fondamentale. Nel nuovo album c’è anche un bel fumetto di Greg [Claudio Gregori, comico e fumettista italiano, nda].
Un dettaglio che mi ha colpito a livello sonoro è l’uso che è stato fatto degli armonici, per esempio ne L’ultima partita. Poi hai citato Bon Iver, che ho sentito in vari punti.
Ci siamo procurati la stessa strumentazione usata da Bon Iver, abbiamo studiato come usarla e abbiamo provato. Io sono molto curioso, con queste cose. Parto sempre dalla melodia, che nel rock e nel pop è importantissima. Anni fa dicevo che i Nirvana erano un gruppo melodico e tutti ridevano, ma quando uscì MTV Unplugged in New York le canzoni erano melodiche. La forma nell’arte vale quanto il contenuto: se un pittore fa un campo di girasoli di per sé è solo un campo di girasoli, ma van Gogh gli imprime una forma che lo rende straordinario. Per le canzoni è lo stesso: dipende da come le arrangi. In questo disco, per esempio, se ci fai caso, non ho fatto una ritmica uguale a un’altra, volutamente! È una ricerca che ho fatto per differenziare ogni cosa.
Inoltre l’analogico aiuta a scolpire il suono. Non mi chiedere perché da un punto di vista tecnico, ma è così. Abbiamo anche registrato con gli stessi microfoni e lo stesso banco di registrazione Harrison sia in digitale che in analogico nello stesso momento: abbiamo messo ventiquattro canali di qua e ventiquattro di là. Abbiamo alzato allo stesso volume i ventiquattro dell’analogico e del digitale. Perché è così? Non lo so, ma è talmente evidente che non si può fare a meno di accorgersene.
Allo stesso modo quando facciamo la masterizzazione ce la facciamo da soli, perché negli studi di masterizzazione comprimono tutto con un compressore solo oppure con compressori digitali. Noi invece no: dobbiamo fare 6 dB? Prendiamo sei compressori diversi, diamo 1 dB su ogni compressore e lo facciamo passare. E quando sono 12 dB diamo 2 dB per ognuno. E il risultato è veramente diverso: abbiamo provato a farlo con una macchina sola e non è la stessa cosa.
Questo disco prende vita da articoli giornalistici e ha uno sguardo decisamente controcorrente, rivolto al mondo esterno, che racconta delle storie. Oggi i dischi possono ancora influire sullo statu quo? E quest’album, oltre a essere una testimonianza di questo periodo, può anche spingere le cose in una certa direzione?
Secondo me ci sono due mondi da vedere: uno è quello delle radio, della televisione, che ti chiede un determinato tipo di musica. Poi c’è un altro mondo: quello di chi non va in televisione, non passa in radio e fa tutto un altro tipo di dischi; ed è libero. Noi siamo minoranza – mi ci metto completamente – ma siamo la minoranza che rimane. In un pezzo [Parole in libertà, nda] dico: «Camminare al contrario vale il sacrificio». Artisti come Iosonouncane lo fanno e poi fanno anche il pieno, eh. Spero che chi ascolterà questo disco per intero si renda conto che c’è la possibilità di fare anche altro. Questo potrà cambiare, potrà dare una spinta? Chi lo sa.
Mi fa piacere che tu abbia notato che questo è un disco “diverso” da quello che si sente. Ci sono giornalisti che m’intervistano senza neanche averlo sentito. Molti pensano a Gianni Togni e subito pensano a Luna e a questi pezzi qui. C’era un artista, Scott Walker, nato come idolo delle ragazzine, che improvvisamente ha cominciato a fare dischi sperimentali e grandi cambiamenti. Poi Paul Simon, siccome il pop e il rock sono “inclusivi”, nel senso che puoi prendere tutto, dall’elettronica al folk, dal jazz ai ritmi africani, ha mischiato determinate influenze e ha fatto una totalmente un’altra cosa. O David Bowie: ogni disco è diverso dall’altro, faceva sempre cose completamente diverse, ti spiazzava. Fermarsi, fare sempre la stessa cosa, è noioso: già ai vecchi tempi lo evitavo: Luna è diversa da Semplice, Semplice è diversa da Vivi, Vivi è diversa da Per noi innamorati e Per noi innamorati è diversa da Giulia – la cui ritmica peraltro è ispirata a Birdland dei Weather Report. Ho sempre cercato di fare sempre cose differenti. Non me ne vogliano i Beatles, ma alla famosa domanda: «Che disco ti porteresti su un’isola deserta?» io risponderei: «Odessey and Oracle degli Zombies»: quello per me è un disco straordinario, capace davvero di stupire; questa è la storia del pop e del rock.
Come ascoltatore ho ascoltato tanto. Tra l’altro è quasi inspiegabile – quasi, poi ti spiego perché – ma i dischi in vinile degli anni Settanta io li metto ancora spesso sul giradischi e suonano molto meglio dei nostri. Ecco, perché? Perché le macchine per fare il transfer e quelle per stampare erano di più e c’era molta più molta più attenzione e molta più gente che faceva questi lavori. Ho chiesto a un’azienda tedesca di fare il transfer e mi ha chiesto sei mesi d’anticipo per farlo stampare, perché sono rimasti in pochi a farlo in quel modo. Quando ha preso piede il CD il vinile sembrava superato. E invece… Per questo motivo bisogna fare attenzione a non far uscire i dischi quando escono quelli dei grandi nomi del pop, perché tutte le macchine del mondo in quel periodo saranno occupate e tutto verrà rimandato alle calende greche.
Dicevamo che Edizione straordinaria è un disco controcorrente: è un disco che parla del mondo, che è rivolto verso il “fuori”, rispetto alla tendenza attuale che invece si focalizza più che altro sulla sfera individuale.
Sì, è così e l’ho fatto apposta. Tutto questo raccontarsi, lasciando da parte il bello che ci sta intorno, è una rappresentazione della solitudine. Questi ragazzi sono sempre più soli e per questo si ritrovano nella solitudine di qualcun altro, nell’amore finito, nel senso di abbandono. Io, invece, con questo disco ho voluto far capire che c’è anche dell’altro. È un disco fatto come un giornale, con articoli reali, che facciano pensare, accogliere l’altro, abbracciare e comprendere le debolezze, le parti critiche, ma anche la bellezza di alcune scelte che si fanno. Oggi sembra quasi che tutti scrivano, che tutti parlano, ma che in pochi ascoltino.
Niente è bello senza te è un brano sulla storia d’amore di Monica Vitti e Roberto Russo, che è una storia straordinaria. Io non la vivrò mai una storia così, neanche un film può raccontarla. Hanno vissuto quarantanove anni insieme e hanno dormito separati solo per una notte. È un insegnamento: come fai a raccontarlo, se non stai raccontando una storia vera? Oppure la storia di un uomo che voleva diventare sempre più ricco, che poi si è ritrovato a essere un accattone. Hopper, di cui parlo nel pezzo omonimo, ha capito la solitudine già negli anni Cinquanta: in una mostra che ho visitato all’estero ho visto su tela le storie che viviamo oggi.
Nella biografia sul tuo sito dici che trovi divertente il fatto di essere considerato un outsider. Però mi sembra che abbia trovato un tuo modo di gestire il tuo lavoro che è piuttosto anticonformista, in questo senso “da outsider”, no?
Ormai lo sono da anni! Con tutte le persone che mi stanno intorno cerchiamo di fare qualcosa di diverso. Mi sento un outsider perché sono libero, posso fare quello che voglio. Tanto so – e non è una cosa a cui ho mai pensato – che primo in classifica non ci andrò mai più, che le radio non mi passeranno più, così come non passano tutti gli album nuovi degli artisti della mia età, perché gli sponsor vogliono un pubblico giovane. In televisione mi chiamano spesso ma mi dicono che non posso cantare i pezzi nuovi; mi offrono anche un cachet molto alto, ma visto che per fortuna quello che ho mi basta e non sono uno che vuole diventare sempre più ricco rifiuto sempre. Dico sempre: «Se mi fate cantare i pezzi nuovi vengo gratis», ma niente, preferiscono che non venga!
Faccio una vita semplice: ho una casa da quarant’anni e non ho intenzione di ingrandire niente. Ho raggiunto un modus vivendi che fa per me e tutti dovrebbero avere la possibilità di vivere con paghe normali nella società in cui viviamo. Ho conosciuto i più ricchi del mondo e ho scoperto che non comprano cose di lusso, da ricchi, ma vanno in giro in jeans e maglietta, con la carta di credito in tasca. Ho fatto concerti gratis percHé avevo capito che prendendo il mio cachet qualcuno si sarebbe rovinato. Se riesci a vivere con quello che guadagni di tuo, tra lavori discografici e SIAE, e stai abbastanza bene basta, non serve nient’altro. Ci sono persone che guadagnano decine di milioni di dollari l’anno: ma cosa se ne fanno?
Non posso chiudere quest’intervista senza chiederti di parlarmi del tuo lavoro con i musical, una passione nata a Londra che è diventata una parte importante del tuo percorso artistico.
A Londra ho visto un po’ di musical e a un certo punto con Guido Morra ci è venuta quest’idea, la storia di un attore di cinema muto che è stato – pare – l’unico amante di Greta Garbo quando arrivò in America [John Gilbert, nda]. Da lì abbiamo fatto questa storia. Io volevo fare un musical sinfonico perché ero innamorato di Andrew Lloyd Webber [compositore e autore di musical molto noto per grandi successi come – tra gli altri – Jesus Christ Superstar, Evita e Cats, nda]. Tra i musical che ho visto in quel periodo c’erano Il fantasma dell’opera e I miserabili, di cui ho conosciuto gli autori a Londra. The Hollywood Revue è copiato da un film italiano: è un musical in bianco e nero e gli autori hanno raccontato di averlo visto in Italia.
Non sapevo, però, a chi farlo cantare. Avevo composto tutte queste musiche e avevo pagato tutto io. Non c’era il recitato, era tutto cantato dall’inizio alla fine, che è una bella prova vocale. Mentre ci pensavo mi è venuto in mente Massimo Ranieri: sono andato a trovarlo a Milano, gli ho portato questa cassetta e ho pensato: «Figurati, non mi chiamerà mai». E invece dopo un po’ mi ha chiamato e mi ha detto: «Bellissimo! Se trovi una produzione lo faccio». E da lì è iniziata la ricerca di una produzione, ma tutti mi dicevano di aggiungere qualcosa o qualcos’altro, finché una produzione indipendente l’ha fatto. Ho chiamato un grande regista, Giuseppe Patroni Griffi, e a quel punto è stato un successo clamoroso. Da lì mi hanno chiamato in Svezia, sono andato e ho fatto un musical su Greta Garbo, G & G, con anche dei cantanti lirici: abbiamo fatto un anno e mezzo di repliche. Poi mi hanno chiesto di fare Poveri ma belli, per cui ho fatto ventisei canzoni e i testi in sei mesi; a un certo punto scrivevo un testo a notte. Avevo fatto un contratto per dodici canzoni, ma il regista, che era Massimo Ranieri, ha voluto fare un sacco di tagli e mettere più canzoni. E a quel punto, dopo Poveri ma belli, mi son preso un anno di pausa.
Adesso ne stiamo preparando uno nuovo, che sarà molto particolare, completamente diverso dagli altri. Il musical mi piace molto perché sul palcoscenico hai tutte le arti, tutte insieme; e l’album nuovo è una specie di musical: ogni personaggio sale sul palco e racconta la sua storia. Sono personaggi da palcoscenico.
Ecco, tornando a Edizione straordinaria, prima di chiudere l’intervista vorrei farti una domanda sul giornalismo. L’esistenza dell’album è strettamente collegata all’ambito del giornalismo, che presenta anche un’ambiguità di fondo, tra la ricerca dei fatti reali e lo sguardo soggettivo che in realtà non può che caratterizzarlo.
Certo, vieni a dirlo a me! Io ho scelto delle interviste a dei personaggi che hanno raccontato il perché di determinate scelte che hanno fatto. Non ho mai pensato di prendere una notizia, un fatto, perché è vero: le notizie possono essere tristi o allegre, ma non veritiere fino in fondo, perché i giornalisti ci mettono necessariamente del loro, senza dubbio. Per questo ho usato delle interviste, in cui le persone in questione raccontavano le loro personali storie e motivazioni.
Il problema del giornalismo, soprattutto se ha a che fare con l’arte, è che dovrebbe scendere in profondità, mentre invece si fanno delle interviste assurde che neanche Novella 2000 avrebbe fatto negli anni Ottanta! Io all’epoca cercavo in tutti i modi di schivare questo tipo di interviste, invece oggi mi ritrovo anche i giornali seri che fanno gli articoli acchiappa-lettori. E allora qual è la verità da raccontare?
Io mi sono messo in testa l’idea di selezionare delle interviste che non mi sembrassero banali, in cui non facessero domande tipo: «Che cosa canti sotto la doccia?», che tra l’altro è una domanda che mi hanno fatto. Sono personaggi che raccontano il proprio percorso, le proprie motivazioni, come arrivavano alla realtà che vivono. Appunto, personaggi da palcoscenico.