Gianluca De Rubertis è tra i migliori cantautori italiani. L’artista leccese, noto ai più come metà de Il Genio, che nel 2008 conquistarono la Penisola con “Pop porno”.
L’intervista
Gianluca De Rubertis è tra i migliori cantautori italiani. L’artista leccese, noto ai più come metà de Il Genio, che nel 2008 conquistarono la Penisola con “Pop porno”, è andato molto al di là di quell’esperienza, abbracciando un cantautorato raffinato ed elegante, cristallizzato in tre album solisti. Il terzo di questi si chiama “La violenza della luce” ed è uscito il 24 ottobre per la Sony Music, ed è un album più vicino a sonorità pop, eppure denso di parole e significati. Di alcuni di questi ne abbiamo parlato con Gianluca.
Nel comunicato stampa che accompagna “La violenza della luce”, lo hai definito un “non concept album”. Nel senso che c’è un’idea comune, non da seguire necessariamente?
Non è un concept, ma potrebbe esserlo scavando a fondo all’interno delle canzoni. Sebbene parli di cose diverse, nasce da una turbolenza interna importante che ti porta a vedere le cose in maniera empatica e critica al tempo stesso.
Rispetto il tuo precedente lavoro, “L’universo elegante”, “La violenza della luce” mi sembra un disco più up-tempo, e inoltre sei passato dai suoni del pianoforte acustico ai sintetizzatori.
La tastiera principale che ho utilizzato è un Yamaha CP 80, un pianoforte elettrico degli anni ’80.
È stata una scelta precisa quella di virare verso sonorità più elettroniche?
Quando scrivo le canzoni, faccio subito dei provini, con una bozza di arrangiamento. Mi sono subito proiettato in quel mood, le immaginavo già così. Quando scrivi non pensi solo a testo e musica, ma anche al suo vestito estetico, quello che balza alle orecchie subito. In studio non abbiamo rinnegato queste scelte.
Analizzando la scrittura dei testi c’è spesso una struttura “stile Dylan”, dove invece di avere un ritornello, le strofe terminano con una frase che spesso contiene il titolo dei brani. È un disco con una metrica serrata e una grande verve poetica, cosa cercavi scrivendo i testi?
In questo disco testi e musica vengono contemporaneamente. Non ci metto mai molto per scrivere testi, e quando mi ci metto non li lavoro troppo a lungo. In alcuni casi quando c’è una illuminazione particolare, quando ti senti spinto da qualcosa, la maggior parte delle parole arriva insieme alla musica, come qualcosa che circola già dentro la canzone e da cui emergono le parole chiave.
Il termine “illuminazione” che hai usato mi fa pensare come la luce sia sempre presente nell’album, partendo dal titolo.
Potrebbe essere uno dei temi. Anche canzoni che sembrano inneggiare al vizio e alla festa, come “Versateci del vino” e “Che ci facciamo noi”, se lette più in fondo mostrano un gridare amaro, un incitare quello stile di vita, ma criticandolo perché porta in una direzione non positiva.
L’altro lato delle canzoni infatti parla della vita notturna, lontano dalla luce. Quel mondo che oggi è chiuso d’altronde. Com’è uscire con un disco in un momento così?
Spero faccia meno effetto possibile, non è bello faticare per suonare e avere difficoltà per fare un concerto. Le norme sembrano una pioggia di regole casuali: l’Agis ha dimostrato che i live, seguendo le regole, sono posti sicuri. Spero che il disco vada bene al di là del periodo. Vivo un momento che non mi appassiona, non sono molto entusiasta. Immagino come tutti, ma da parte mia è giusto esprimere opinioni e la mia opinione sui provvedimenti è iper critica.
Avranno un impatto anche nel ripensare il ruolo dell’artista. Qualche mese fa, un sondaggio pubblicato sul The Sunday Times riportava come il 71% delle persone ritenesse inutili gli artisti.
Io sono d’accordo, l’artista è un lavoro inutile e se non fosse così sarebbe una tragedia. L’arte è completamente inutile. Il problema è che le persone non lo dicono con consapevolezza di quanto sia importante l’inutile, ma denigrandolo. Eppure dicono la cosa più bella del mondo, più esaltante dal punto di vista ermeneutico dell’arte.
A proposito di distanza tra le persone e gli artisti, in “Voi mica io”, la traccia che apre l’album, c’è questa dicotomia tra gli altri e un io, poi ribaltata. Mi sembra figlia della realtà tipica dei social, dove siamo sempre in contrasto con gli altri.
Quando ero ragazzino e guardavo il “Maurizio Costanzo Show” lo trovavo insulso perché tutto andava “bene”, in nome della demagogia e della ricerca spasmodica dell’azzeramento delle differenze tra le persone. Non è vero, non siamo tutti uguali, non lo siamo stati e non lo saremo mai. L’umanità in qualsiasi periodo storico è rimasta pressoché uguale, nonostante questa cosa che chiamiamo civiltà e progresso. C’è un livello di imbecillità che qualche volta mi fa venire il voltastomaco, e mi ci metto anche io dentro, perché mi sorbisco queste cose che mi fanno venire ribrezzo senza il coraggio di mettermi in prima linea e dire cosa penso. Le persone che si occupano di inutile, cioè di arte, dovrebbero dire qualcosa, seppure non ci sono più spazi che danno voce all’intelligenza. E i social non sono posti dove l’intelligenza vince facilmente.
Un verso che mi ha colpito della canzone è quando parli di “Voi alternativi della miseria che vi scagliate contro Baglioni”. Parli di qualcuno nello specifico?
Parlo del popolo dell’indie e dell’alternativo, quello che reagisce a un Baglioni con il solito gesto delle dita sul braccio, quasi a dire che è meglio farsi le pere. Quello è un atteggiamento ignorante. Baglioni ha fatto capolavori, anche senza il mio parere, e molta gente semplicemente non conosce i suoi brani. La frase è dedicata a chi ha la puzza sotto il naso, e spesso questi sguazzano nell’indie, dove se un brano è in inglese è figo e in italiano è una cagata, o qualsiasi cosa recensita da [nome di una nota rivista italiana] è figa o se dice che un disco è una cagata, lo diventa. E quella rivista dice che il mio disco è una cagata! [ride]
Baglioni veniva disprezzato all’epoca in quanto pop. Oggi, tutti cercano di fare pop senza avvicinarsi neanche a Baglioni. C’è da dire che tu stesso hai definito il tuo disco pop.
Pop rispetto a indie ha una dignità, significa popolare. Quando un disco viene denominato pop è perché ha un linguaggio più ampio, comprensibile a più persone. Questo disco ha una apertura maggiore, può essere capito da più persone. Magari nei dischi precedenti c’erano dei viaggi testuali più criptici o aggrappati alle viscere, magari un modo di fare poesia diverso. Non l’ho fatto apposta, sono delle fasi e dei passaggi, secondo [stessa rivista di prima] sono diventato peggiore, magari per altri migliore?
Ti preoccupa il giudizio delle persone sul tuo lavoro?
No mai, mi preoccupa quando il giudizio non dice nulla. Una mia amica questa estate aveva commentato un preascolto dell’album definendo il disco “poco ironico”. Accetto tutto, ma se mi dici che è “poco ironico” è un commento sciocco: se dovessi fare un disco per tutte le esigenze delle persone sarebbe assurdo. Mi spiego: se mi dai un giudizio lo accetto, ma se mi dici che tu avresti fatto il disco diversamente non mi interessa, non posso fare dischi per appagare gli altri. Spesso anche nelle recensioni non si interviene sulla qualità ma sul “sarebbe stato meglio se”, e quello è idiota. Un artista fa quello che sente di fare, poteva essere meglio per te, ma il disco lo scrivo io, sennò lo scrivi tu, mi chiami e mi dici “Gianluca, ti ho scritto questo disco così”! [ride]
Il concetto di ironia è molto attuale, in un momento in cui tutti usano l’ironia nel pop, che non ha il coraggio di dire le cose rivendicando un giudizio esplicito.
Penso che se un giudizio non è sincero è un male. Questo atteggiamento è indotto dal circuito musicale, si è affermato da anni. È diventata prassi anche da parte delle case discografiche, specie le più grosse, raccomandare all’artista di evitare alcuni argomenti, essere politically correct, essere buoni e gentili e non offendere nessuno. Grazie a Dio qualcuno se ne fotte pur rimanendo a galla e avere seguito, come Morgan, che è un amico e stimo come cantautore, seppure ci è arrivato in questa posizione dopo aver fatto X Factor e la Tv.
Tornando all’album, mi sembra ci sia un discorso duplice: da un lato un certo esistenzialismo, come nella chiusura di “Dimmi se lo sai”, che ha più dubbi che risposte.
“Dimmi se lo sai” è l’unico pezzo che non ho scritto da solo. È la canzone di un sacerdote, Padre Bruno Facciotti, uno stimmatino, una congregazione piuttosto recente. Sono sacerdoti che vanno in missione, non in Africa o Asia, ma sul territorio, quanto più vicino possibile. Quando ero molto piccolo, forse dodicenne, Padre Facciotti era venuto a Lecce. Io andavo all’azione cattolica, unico posto dove poter fare qualcosa e provenendo da una famiglia cattolica. Facciotti era pazzesco: non era vestito da prete, era sorridente e allegro e scriveva e cantava canzoni sue. Una volta ha suonato anche questa “Dimmi se lo sai”. Un paio d’anni fa mi sono ricordato del brano: mi ricordavo strofa e musica nella parte principale, così ho cercato Padre Facciotti, l’ho rincontrato, e ovviamente non si ricordava di me. Ma era felicissimo e mi ha dato il libretto dell’originale, così gli ho chiesto se potevo modificarlo. Gliel’ho mandata quando l’ho registrata e mi ha ringraziato quasi commosso.
La canzone ha un verso particolare, che fa strano sentito da un prete: “L’amore che cos’è? È come un giro in giostra, unirsi per le strade nеlla notte”.
Il verso chiede se l’amore è un divertimento, scopare per strada. Il verso originale era ancora peggiore, diceva “unirsi per le strade come i cani”, che dava il senso originale della frase. Era una immagine troppo cruda e l’ho modificata, anche perché non sono un prete e nella notte mi sono anche unito [ride]. È una domanda che non ha risposta, come le altre, ma è una critica: l’amore dovrebbe essere una cosa in più, qualcosa di sconvolgente, abbagliante e profondissimo. Quando ci capita di essere innamorati spesso si dice, “quello si è rincoglionito”, poi bisogna capire quale stato sia preferibile: se innamorati e rincoglioniti o quello in cui l’amore sconvolgente non ci attraversa e siamo cinici.
La canzone che è più estranea al disco, a pensarci, è il singolo “Pantelleria”: anche lì siamo immersi nella luce, estranea alle strade di notte. Ma se il disco è cittadino, la canzone è pittorica e descrittiva.
Mentre le canzoni sono state scritte affiancate, a raffica e forse l’ordine della scaletta è l’ordine della scrittura, “Pantelleria” è stata scritta dopo, e sta in centro quasi come un intervallo un po’ acquatico.
Opposto al lato esistenzialista, c’è invece una parte estremamente fisica. Penso a “Solo una bocca”, dove nomini, nell’ordine: seni, mani, gola, cuori, bocca, labbra, natiche e dita. Invece, in “Versateci del vino”, ginocchia, capelli, testa, gola, cuore e petto.
Non me ne ero accorto! [ride]
Cos’è quest’anima fisica, contrapposta all’Universo?
È il languore fisico, l’aspetto sessuale, notturno, che può essere bellissimo ma può anche sembrarci orrendo. Mentre scrivevo il disco, un paio d’anni fa, tra febbraio e aprile, ero in una sensazione di empatia totale col mondo. C’era qualcosa, ovviamente, nella vita quotidiana che stava amplificando quello stato, ma spesso tutti ci procuriamo delle psicosi, delle angosce che ci servono a tirare fuori delle cose nuove. Vivevo in questa psicosi potentissima, dove magari mi commuovevo per strada vedendo qualche sconosciuto con un solco di tristezza o uno sguardo amaro. Non riuscivo a sopportare l’enorme peso di milioni di persone che soffrono nel pianeta. Questo stato d’animo ti porta a esagerare. La sera uscivo e mi ubriacavo male, magari per alleviare questa empatia feroce, e vedevo in questo girare notturno posti affollati di gente, pieni di vita anche meravigliosa. Intravedevo qualcosa che mi intristiva profondamente, e si diventa demoni notturni alla ricerca spasmodica di qualcosa da amare. Non siamo altro che usurpatori di altre anime e energie altrui per colmare la nostra tristezza, un mondo alla “I demoni” di Dostoevskij.
In questa guerra tra lo spazio universo e la dimensione del singolo dove ti trovi?
Ora sono in uno stato abbastanza quieto, grazie a dio. Quell’empatia feroce non ce l’ho, ma non la voglio. Si può sopportare per brevi periodi, sennò diventa un inferno. Sono concentrato sull’album e ho già scritto cose nuove, non ho molto tempo per approfondirmi, in questo momento.