– di Riccardo De Stefano
foto di Liliana Ricci –
La storia di Galeffi ci insegna che la verità si trova sempre in mezzo: esploso nell’ormai lontanissimo 2017 con “Scudetto”, album d’esordio, e da subito additato come ennesimo volatile cantante indie, Marco Cantagalli – in arte Galeffi – ha rimesso le cose in ordine col suo secondo album, lo splendido “Settebello”, il cui unico limite è stato di essere uscito in piena pandemia (marzo 2020), sommerso dal silenzio del lockdown.
Un colpo che avrebbe steso chiunque, o perlomeno chi fa musica solo per speculare: Galeffi invece ha preso il pianoforte e si è tuffato nella propria anima, tirando fuori “Belvedere” che è senza dubbio il suo album più bello, lontano dai manierismi dell’indie/itpop e coraggiosamente orientato verso una forma-canzone dal piglio cantautorale, tra le cose più belle e toccanti uscite nel sempre più sintetico 2022.
Parlare con Marco significa parlare con una personalità forte, decisa, che sa cosa vuole dalla Musica e cosa dare al pubblico. Ecco cosa ci siamo detti.
Intanto, complimenti: l’album è molto bello, anche diverso da quello che ci si potrebbe immaginare da un prodotto della “scena”, diciamo. È stato definito come un nuovo inizio, e, a fare un passo indietro, bisogna ammettere che non sei stato l’artista più fortunato del mondo. Il tuo “Settebello” è uscito dentro il lockdown: come si affronta una cosa del genere e come se ne esce?
È stato sicuramente difficile uscirne. In realtà di fatto ho accantonato “Settebello”. L’idea di posticipare l’uscita e il tour, come hanno fatto quasi tutti, e tenermi appeso un disco che non potevo suonare per anni non mi piaceva. Ho sempre degli obiettivi concreti da raggiungere costantemente: aspettare due anni nell’attesa mi avrebbe divorato, quindi ho preferito puntare a scrivere un altro album. Ho pensato che avrei avuto più tempo: il mondo della musica fino alla pandemia era un vortice, stare sempre in giro e quando non sei in giro scrivere e pubblicare.
Con i tempi che corrono nella discografia, stare fermo due anni e fare uscire un disco che non puoi suonare, con un progetto live come il mio, vuol dire stare fermo per quattro anni praticamente. Quattro anni nella discografia di oggi è quasi un nuovo esordio sul serio.
Mi è servito per fare pace con gli “errori”, se così vogliamo chiamarli, fatti in passato, ma anche come tempo prezioso per rimboccarmi le maniche e provare a fare un disco ambizioso. Volevo fare questo: un disco coerente con i lavori precedenti, perché non ho nulla di cui vergognarmi, ma fare un album con delle sfaccettature mie che avevo già dentro di me ma che la gente non aveva ancora sentito. Penso a quella poetica un po’ transalpina di musica francese che è stato cibo prezioso durante la pandemia. Ho spaziato ed esplorato tra tutte le varie sfaccettature della canzone francese.
Effettivamente mi sono sentito molto più libero, ho capito che quando sarebbe uscito “Belvedere” non sarebbe stata più l’epoca di “Scudetto”, ma neanche di “Settebello”. Più libertà, più coraggio, più rischio e tutte sfide personali e professionali che mi gasano e mi stimolano.
A proposito di questo, hai detto di aver più coraggio e di aver corretto gli “errori” del passato. In cosa pensi di aver aggiustato il tiro?
Avere più tempo e quindi passare più tempo in studio. Io sono lo stesso, tutte le canzoni uscite e pubblicate non erano buona la prima, ovviamente. Erano magari buona la terza o la quarta, adesso sono buona la dodicesima. Avere più tempo non sempre vuol dire che la canzone che scegli è la migliore, ma sicuramente hai meno rimpianti quando la pubblichi. Ci hai passato così tanto tempo e hai così tante versioni dello stesso brano che magari scegli la versione peggiore, ma sai di aver fatto il massimo.
Se prima arrivavo in studio con dodici canzoni tra cui sceglierne dieci, ora arrivo con venticinque o trenta canzoni e ne ho scelte dodici. Ho scelto le più coerenti, non per forza le più belle, quelle che stavano meglio in questo periodo. Per esempio, “Tua Sorella” è una canzone del disco tra le ultime che ho composto. Ho iniziato la scrittura dell’album che ero ancora fidanzato, poi mi sono lasciato dopo anni di relazione e ho passato per la prima volta nella mia vita ho scoperto la leggerezza sentimentale.
Poi è cambiato l’utilizzo della voce. Crescendo artisticamente e come persona ho capito dove vorrei andare: se prima utilizzavo bene la voce in determinate sfaccettature vocali, queste sfaccettature sono sicuramente di più. Tutta la parte un po’ più sussurrata, l’utilizzo della voce è dosato meglio, più maturo. Ho notato che utilizzo la voce diversamente, ed è uno strumento. Di conseguenza, anche la scrittura è cambiata in base alla voce.
Anche se c’erano delle canzoni preziose che non sono in “Belvedere”, mi piaceva avere “Tua Sorella” nel disco perché comunque al di là di chi compra i dischi, sono anche dischi miei [ride, ndr]. È anche un diario, cioè ho scelto le canzoni che tra vent’anni riguarderanno me e mi ricorderò che ho passato anche questa fase di leggerezza, di incontri, mi piaceva lasciare questo lato da “ragazzaccio”. C’è anche il lato romantico, ma volevo lasciare il lato sbarazzino.
Si dice sempre “l’album della maturità” e ormai hai superato i trent’anni. È un album più maturo per motivi anagrafici, artistici, anche sociali in un certo senso. Cosa significa per te “il disco più maturo dell’artista”?
Bella domanda… forse quello che ha meno paura. Mi annoiano mortalmente gli artisti che fanno sempre la stessa cosa, ho capito che con il passare degli anni tendo a rimanere fedele a quegli artisti che ogni album che fanno piuttosto che rimanere nel proprio orticello fanno robe diverse. Sono fan dell’idea che l’ascoltatore non deve essere abituato a nulla, perché in qualche maniera sento una responsabilità di educazione culturale, di responsabilità verso chi mi ascolta, verso me stesso.
E quindi penso a Nutini, penso a Cremonini, penso a tanti artisti che con ogni disco hanno fatto un passetto in più – o anche uno in meno, ma che comunque hanno esplorato e sperimentato. Questo è sinonimo di maturità, di saper fare le cose, di curiosità, ricerca. La maturità ha tutte queste caratteristiche: uno rischia quando è più maturo, quando è consapevole.
Per questo l’hai definito un disco “ambizioso”. Qual è la tua ambizione quando fai un disco?
In “Belvedere” non avevo in mente quanto sarebbe durata la pandemia e quindi era l’ambizione di fare un disco che durasse per sempre, con dentro tutte canzoni eterne. Non so se ci sono riuscito ma secondo me buona parte del disco ha questa potenzialità. Non voglio fare frasi mitomani perché non è il momento di farle, ma è un album potente, importante secondo me.
Vedo tanti artisti che hanno perso un po’ di fantasia, di verità. Quattro anni fa l’indie esplose perché proponeva della musica diversa, vera. Questo album secondo me ha tutte queste cose qui.
La pandemia ha coinciso con l’affievolirsi dell’indie pop, d’altronde.
Di certo due anni senza concerti hanno inciso tantissimo. Abbiamo progetti che si basano sulla parte live, rispetto a tanti artisti più radiofonici o televisivi o che streammano di più. Noi senza live abbiamo pagato tantissimo, il live è fondamentale per un certo tipo di proposta musicale. Quelli che spaccano con gli streaming si rivolgono magari a un pubblico più giovane, sono abituati culturalmente a interfacciarsi con il digitale. Di conseguenza è cambiata proprio la wave: penso a Blanco che è tra i più bravi e i più nuovi. Le strade cambiano seguendo anche gli artisti. Adesso sento tante cose simili a Blanco, per dirti. Prima si diceva che tutti i cantautori indie si assomigliavano, ma perché anche le case discografiche vanno dietro a questi exploit. Non ti so dire se fanno bene o male, ma la cosa più importante della musica credo sia l’identità.
Nonostante l’anima live, il disco è molto coraggioso negli arrangiamenti. Ci sono archi, fisarmoniche. Hai pensato a come le due anime del disco possono coesistere?
Sì, ho delle idee. Devo ancora cominciare le prove, non ho ancora annunciato le date, lo farò presto ma non posso spoilerare. Abbiamo delle idee, io e il management, ovviamente poi tocca vedere come fare alle prove. Saranno dei concerti belli eleganti, collettivi, allo stesso tempo mi immagino una cosa di cantato tutti in gruppo per canzoni che ho in repertorio, ma anche momenti di intimità e di ascolto e silenzio. Ci sono entrambe le cose e mi piace.
Un’altra cosa che mi piace è che rispetto ad altri progetti il mio ancora mantiene – e penso di aver educato bene i miei fan – l’ascolto del disco. Il senso del disco si sta perdendo, la gente va dietro ai singoli. Per fortuna il disco è uscito da alcuni giorni e vedo che l’ascolto dell’album è totalizzante. Alla lunga escono fuori quei due o tre brani in ogni album, ma vedo che c’è un ascolto della totalità dell’album. Questa cosa mi rende tranquillo e fiducioso.
Il mio pezzo preferito è “Asteroide”, che non è un singolo. Mi sembra che incarni l’anima del progetto, come non per forza bisogni inseguire il singolo. C’è LA volontà di avvicinarsi alla canzone d’autore, il cosiddetto cantautorato più che il pop generico. C’è un modo per sovrapporre questo cantautorato al pop da classifica? Qual è il tuo modo di percepire queste due anime dentro di te?
È sempre stato quello che mi stimola: se fai canzoni spudoratamente pop è paradossalmente facile, così come scrivere canzoni molto complicate è facile. Trovare l’equilibrio tra una canzone pop ma di qualità è la cosa più difficile. Se vai nella parte più pop scadi nel pop di plastica banale, se vai dall’altra è troppo cerebrale. Bisogna trovare la chiave per il punto di unione tra la musica d’autore e il pop che piace è la missione più difficile. Abbiamo degli esponenti in Italia che sono maestri in questo, penso a Jovanotti e Cremonini. Hanno fatto dei tormentoni, ma sono artisti completi e non si sono mai troppo venduti. Anche senza andare a pescare Battisti o Dalla abbiamo degli esempi di cantautorato di valore e qualità. Bisogna avere gli esempi giusti nella vita per diventare anche noi artisti completi.
Sono contento che “Asteroide” ti sia piaciuta e arrivata, è una delle canzoni che forse fotografano meglio l’intero album. Colgo l’occasione per ringraziare Jacopo Sinigallia perché questo brano è nato in lockdown. Un giorno ho scritto a Jacopo che mi stavo annoiando e lui, che è il produttore, mi ha proposto di sentirci su Skype e provare a scrivere a distanza. Ci connettiamo su Skype e componiamo immaginando la cosa opposta al lockdown, quindi lo spazio, l’universo. Lo spazio non è circoscritto alla tua stanza, ma l’opposto. Sognare quella libertà che in quel momento non avevamo e quella disillusione che stavamo vivendo con invece l’illusione di un amore che andava oltre lo spazio e il tempo. la musica più aiutare a farlo.
È un disco dov’è molto forte la voglia di vivere e di evadere. Fai riferimenti alle stelle, allo spazio: è forse un modo per pensare alla musica come un modo per scappare? In genere il pop tende a farci scappare nella dimensione del ballo e del divertimento. Questo disco invece dove ci porta fuori?
Ci porta dentro di noi in realtà, che è comunque uno scappare. Però purtroppo molto spesso non siamo connessi a quello che ci circonda. Le difficoltà del quotidiano sono tante, e ci siamo abituati al superficiale. “Belvedere” è un disco molto intimo, è quasi da ascoltare ad occhi chiusi, ci fa sentire i pensieri dell’anima, almeno per me, ma credo per tutti. Venivo da un momento particolare, tra lockdown e preoccupazioni varie, anche economiche, collettive, sociali. Aggrappandomi a queste canzoni ce l’ho fatta a superare il momentaccio, “Belvedere” era un po’ questo cercare di “vedere il bello” dentro di noi, fuori da noi: recuperiamo e alleniamo questa cosa.
È un disco figlio di ascolti importanti e vari. Se dovessi consigliare a un ragazzo della generazione Z tre dischi di artisti per entrare nel mood?
Ti direi “Wave” di Patrick Watson, cantautore franco canadese, “Sexuality” di Sebastian Tellier, e poi ti direi “Plastic Ono Band”, il primo album solista di Lennon.