– di Michela Moramarco –
Francesco Gabbani pubblica il suo quinto album, il cui titolo sembra essere una giustificazione lasciata in sospeso: “Volevamo essere felici” e invece cantiamo la nostra scontentezza. L’album è composto da dieci tracce che stilisticamente rispecchiano le sonorità e l’immaginario che già conosciamo riguardo l’artista autore di “Occidentali’s Karma”. Eppure, c’è una tristezza di fondo che si percepisce mentre si ascolta questo album, che permea anche i brani apparentemente più ottimistici. L’album ci porta in una dimensione sfaccettata della riflessione sull’esistenza umana, in particolar modo riguardante “La mira” che ciascuno di noi prende nel proprio percorso di vita. Anche se “La mira” può sembrare quella giusta, da “ottimo ottimista”, spesso ci si scopre scontenti e illusi riguardo quello che si è, tanto da allontanarsi ancora di più da dove si è per cercare ancora la strada di casa. L’ascolto complessivo di questo album è chiaramente stratificato, poiché può sembrare un semplice album di brani più pop e altri più lenti e ballabili, ma si tratta di un percorso emotivo di rivelazione di quella che è la percezione che ciascuno ha di sé stesso. “Volevamo essere felici” sembra essere un album che chiede scusa per non aver inseguito davvero la propria vocazione, allontanandosi fino a smarrirsi tra la gente e a non riconoscersi più. Gabbani invita a porci determinate domande, che non devono necessariamente interpellare magiche formule o eccessivi dolori occasionali, ma solo la propria più sincera essenza, quella stessa che porta a ridere di niente. Oltre a questa attitudine sostanzialmente moraleggiante, l’album di Gabbani porta alcune caratteristiche molto pop, come ad esempio nel brano “Peace and love” in cui Gabbani non rinuncia a motti in inglese per non tradire la propria poetica scanzonata: non mancano neanche accenni alla grande poesia italiana anche se il motivo di questa scelta non è ancora chiaro. Non manca la canzone d’amore, in questo album, una canzone da ascoltare così come la senti, anche se non è emozionante come ci si aspetterebbe dalle prime note. Degustibus. Un’altra traccia degna di nota è “Spazio Tempo”: i guai degli esseri umani derivano da almeno una di queste due dimensioni, quindi dalle distanze, dai rimpianti dal passato e dalle angosce dal futuro.
Insomma, personalmente, non ho altre spiegazioni per un brano così sospeso fra la ballata da animazione turistica estiva e brano profondamente filosofico. Vabbè, procediamo con l’ascolto con il brano che si intitola “La Rete”, il cui titolo lascia chiaramente intuire la tematica dell’iper-connessione che caratterizza la società in cui siamo immersi. Ma lascia anche pensare alle trappole mentali di cui siamo vittime nel cascare puntualmente nel pregiudizio di chi si ferma alle apparenze. Un altro brano in puro stile Gabbani è “Sangue darwiniano”, riconoscibile e coerente, forse troppo pop. L’album si chiude con “Sorpresa improvvisa”, un brano forse non proprio sorprendente per una chiusura di un album molto colorato e che lascia l’ascoltatore immerso in una riflessione lenta e introspettiva.