– di Giacomo Daneluzzo –
Molti pensano che questo sia un periodo triste, per la musica italiana. Un discorso da boomer? Sì, forse. Però effettivamente anch’io (che comunque ho vent’anni, non cinquanta) sono cresciuto a pane e cantautorato, in un mondo in cui i testi delle canzoni parlavano all’anima, parlavano di cose importanti, di sentimenti immensi, di amore, di dolore, di passione, di rabbia, di politica… Insomma, di “cose grosse”, per quanto condite sempre da una certa retorica. E oggi l’impressione è che “la quotidianità” abbia preso totalmente il sopravvento e si sia imposta di prepotenza sullo straordinario, sull’eccezionale, un po’ come a dire: “Sai che c’è? Il mondo è una merda, fa tutto schifo, non ci resta che la noia, quello che possiamo vedere tutti i giorni, in cui chiunque potrebbe immedesimarsi”. E tutto vale uguale, tutto è irrilevante, permeato da un annoiato nichilismo passivo. Forse è eccessivo, lo so. Però sono tra quelli che vorrebbero pensare che forse la vita non sia proprio orribile dall’inizio alla fine, che forse possa esserci ancora qualcosa in cui sperare, qualcosa in cui credere, che possa dare un briciolo di significato a quest’esistenza desolante; almeno contemplarne la possibilità. Ed è così che arriviamo a Fulminacci e a questo piccolo gioiello chiamato Tante care cose.
Nel 2019, dopo l’uscita di La vita veramente, come molti altri rimasi estremamente colpito da questo giovane cantautore di Roma, con la sua verve teatrale, il suo approccio libero alla canzone, che riprendeva una certa musica d’autore e la rendeva molto contemporanea, a livello di produzioni, di testi, di “mood”. Vincitore, quell’anno, della Targa Tenco come miglior opera prima, si tratta di uno degli esordi più fortunati e ben realizzati degli ultimi anni. Per questo le aspettative su Tante care cose, prodotto da Giordano Colombo e Federico Nardelli e uscito oggi per Maciste Dischi, erano alte, altissime, senza esagerare. L’album è stato anticipato dai singoli “Canguro”, “Un fatto tuo personale” (con la produzione di Frenetik & Orang3) e “Santa Marinella” (prodotta da Tommaso Colliva), con cui Filippo Uttinacci – questo il vero nome del cantautore – ha partecipato alla settantunesima edizione del Festival di Sanremo.
A proposito di questa partecipazione a Sanremo: Fulminacci è stato, di fianco a nomi come Coma_Cose, La Rappresentante di Lista e Lo Stato Sociale, uno degli esponenti della scommessa persa di questo “Sanremo indie”, ovvero uno di quei nomi che caratterizzavano questa (apparentemente) nuova forma del Festival, provenienti dal panorama indipendente, che hanno spiazzato il pubblico degli habitués di Sanremo e che sono finiti per classificarsi mediamente male, lasciando il podio ai più televisivi/radiofonici Måneskin seguiti da Francesca Michielin/Fedez e dall’immancabile Ermal Meta. Uttinacci si è presentato sul palco dell’Ariston con “Santa Marinella”, forse il brano più vicino al contesto sanremese della sua intera produzione, ma comunque una canzone coerente col suo percorso artistico, ben scritta e ben suonata e, comunque, una perla anche all’interno di Tante care cose; si è presentato al pubblico televisivo con una grande dignità, con una preparazione tecnica che la maggior parte dei partecipanti – diciamocelo – non aveva e portando alla serata delle cover una versione mozzafiato di “Penso positivo” di Jovanotti, accompagnato dal comico Valerio Lundini e dal trombettista Roy Paci.
Tornando all’album, sembra che la partecipazione a Sanremo di Fulminacci non abbia influenzato – non in modo sensibile, perlomeno – il percorso artistico del cantautore ventitreenne, che però da La vita veramente è cresciuto, si è evoluto tantissimo, osando sempre di più nelle sonorità e nella scrittura. Un esempio dell’estremismo lirico di Fulminacci, se così si può definire, è “Canguro”, primo singolo estratto dal disco, in cui possiamo restare quantomeno un po’ straniti dalle frasi cantate nel (ritmatissimo) ritornello: “Salto, sono un canguro / Trenta testate al muro / Bella, la sensazione / Sbatto, sono un tamburo / Sempre più giusto e puro / Dentro c’ho tutto scuro / Crolla la convinzione / Odiami e vaffanculo”; le immagini surreali e inaspettate costituiscono un bel balzo dai testi dei “grandi cantautori” a cui ci sembrava così affine nel primo album. Una produzione variegata fa da sfondo alle dieci tracce, in cui Fulminacci supera se stesso di continuo, attraversando i generi come un grande timoniere del cantautorato contemporaneo qual è. La scrittura si fa più sicura, più sfacciata, meno influenzata da stilemi già consolidati – quelli da cantautore “tra il vecchio e il nuovo”, etichetta a cui fin da subito è stato associato – e disposta a spingersi oltre, trovando una chiave espressiva nuova e di cui, oggi, c’è un grande bisogno.
Tante care cose è meno De Gregori, Dalla e Battisti, forse le sue maggiori influenze, rispetto a La vita veramente, ed è molto più sperimentazione, tanto musicale quanto testuale. Se La vita veramente era un cantautorato nuovo, intelligente, che non dimenticava i grandi del passato ma comunque fresco, Tante care cose è un mondo totalmente diverso, in cui i “grandi cantautori” sono sempre lì, certo, ma più che essere un modello a cui tendere sembrano accompagnare Fulminacci nella sua strada, camminando di fianco a lui, mentre la direzione della sua espressione artistica diventa sempre più definita, sempre più sua, sempre più personale e originale. Fulminacci è cristallino, è capace di giocare con l’elettronica (come ci aveva già mostrato in “Le ruote, i motori!”) in “Un fatto tuo personale”, con i ritmi funky e sorprendentemente radiofonici di “Tattica” e con una versione rinnovata e genuina della canzone d’autore, come la sanremese “Santa Marinella”. Una canzone come “Giovane da un po’”, forse la più degregoriana dell’album (da notare la citazione ai “figli di figli dei fiori”, mutuati direttamente da uno dei protagonisti de “L’uccisione di Babbo Natale” di De Gregori), è un pezzo che probabilmente ha ben poco da invidiare ai suoi amatissimi “grandi” della musica.
Per l’appunto, non si può non parlare dell’amore per “i grandi” della musica, italiana e non, dal cantautorato nostrano alle stelle del rock (un nome su tutti: The Beatles): questa dichiarazione d’amore, implicita in tutta la sua produzione, diventa esplicita nell’ironica, bellissima e beatlesiana “Forte la banda”, in cui afferma: “Mi piace la musica, quella dei grandi / E dopotutto può essere un atto d’amore rubargli le idee”. E se forse “rubare” è un verbo un po’ forte, per definire il lavoro di Fulminacci, soprattutto in rapporto a quanto “rubino” oggi gli artisti, il concetto è chiaro: la musica è tanta, è variegata, e l’autore prende tutto quello che può prendere per costruire il proprio personalissimo percorso.
E forse proprio questo amore per i grandi del passato e la sua concretizzazione all’interno dei testi e della musica di Fulminacci è ciò che mi fa pensare che parli (anche) a me, che mi voglia dire che, volendo, ci si può vedere anche nel buono, nella musica di oggi, più in generale nel mondo, nella vita. Che c’è speranza. E sì, c’è, perché Fulminacci, in Tante care cose ancora più che in La vita veramente, risulta totalmente contemporaneo, totalmente immerso artisticamente in questi tempi. Non è quel cantautore che ti piace perché ricorda i tuoi amati cantautori “vecchi”, ma perché è in grado di dire qualcosa, di esprimere qualcosa di forte e profondo, restando però contemporaneo al cento per cento. In ogni traccia di Tante care cose ritrovo la stessa emozione che ho provato la prima volta che i miei genitori mi hanno fatto ascoltare l’album Rimmel di De Gregori. Quindi grazie, Fulminacci, per averci dato un’alternativa valida e altrettanto contemporanea; per questi motivi penso che Tante care cose sia esattamente l’album di cui il mondo della musica, oggi, aveva più bisogno, capace di dare una scossa allo scenario, di cambiare le regole del gioco e di proporre una serie di “care cose”, perfette per questo periodo insolito, non solo musicalmente.