Francesco Motta, classe ‘86, quest’anno compie trent’anni e ha già un curriculum importate: due dischi con i Criminal Jokers e anni di collaborazioni musicali (Nada, Pan del diavolo, Giovanni Truppi). Adesso, alla fine dei vent’anni, cambia tutto e si incammina in un nuovo percorso musicale, da solo.
Ora è tutto diverso, non sono più un portavoce ma ci metto la faccia direttamente. Adesso sto bene, in altri modi rispetto a prima. Quando ero più piccino c’era tanta voglia di distaccarsi, facendo punk ed essendo aggressivi, la solita miglior difesa è l’attacco. Ora è diverso perché son felice di non far più casino per forza. Suonare canzoni degli altri mi ha fatto capire che ognuno deve stare al suo posto: mi è servito essere rispettoso verso le canzoni degli altri, così da essere più rispettoso delle proprie canzoni, rispettarne i difetti, ho capito che certe cose le dovevo fare anche con me stesso e non è facile. E così la musica con il testo: come nel parlato, se tu dici una cosa ci sono un miliardo di modi di dirla, anche con gli stessi significanti ma il tono della voce e i gesti cambiano tutti. Stesso testo con altra musica e tutto cambia. Mi sembra che ogni nota che c’è nel disco vada a influenzare ogni parola.
La fine dei vent’anni è il suo primo album solista, dove Francesco ci mette la faccia e il cognome.
Mi piaceva usare solo il cognome, anche perché il “Motta” della famiglia è sempre stato mio padre. Volevo assumermi la responsabilità e prendermi questo passaggio di consegne. Volevo far così anche perché mi sembrava rappresentasse più un progetto: col cognome e basta volevo venisse fuori più la musica. Ho cercato di levarmi ogni tipo di maschera. Il disco sono tutto io: dentro c’è Francesco Motta.
Produttore del disco e sorta di magister vitae è Riccardo Sinigallia, che ha dato una impronta netta al sound dell’album.
Ho conosciuto Riccardo grazie a Manuele Fusaroli (produttore dei primi due dischi dei Criminal Jokers) e ha accettato questa folle produzione. Ho avuto l’onore di conoscere uno dei migliori cantautori che ci sono, ha accettato di prendersi questo tempo e spero che questa collaborazione possa andare avanti. È scattata la magia, ci siamo trovati benissimo, siamo molto amici, è stato bello. Con lui ho lavorato al disco un anno e mezzo, alcune cose le ho iniziate a scrivere nel 2013, quindi tutto fuorché fare il disco in una settimana.
Ma il lavoro di Sinigallia non si riduce soltanto alla direzione sonora e all’impronta dell’album. Il cantautore romano è infatti presente concretamente nella scrittura, come ad esempio in “Sei bella davvero”, il brano melodicamente più forte dell’album.
Riccardo mi ha fatto capire che non ci può essere mai una parola sbagliata: mi ha aiutato a livello testuale a capire dove le cose non andavano. Ogni parola doveva essere giustificata, una frase importante è meglio da sola che tra frasi non importanti, e così è venuta fuori “Prenditi quello che vuoi”, dove abbiamo deciso di sopprimere la strofa: rappresenta in sintesi quella sorta di mantra che c’è nel disco, oltre ad essere un consiglio al centro dell’album. Vorrei ricreare nel live questo mantra, questa voglia di ballare: il ballare è una delle poche cose che ci son rimaste nella ricerca della felicità. “Sei bella davvero” l’abbiamo scritta insieme, a quattro mani: ci è venuta l’idea di dedicare la canzone a un transessuale, e se la vedi così è davvero commovente. Ma non occorre che si sappia, è sospesa su un filo.
Già chiara nell’opener “Del tempo che passa la felicità” la nuova impronta lirica di Francesco, tesa verso l’annullamento del cliché e la ricerca di un equilibrio e una sincerità personalissima.
In “Del tempo che passa la felicità” parlo in modo positivo della noia, intesa come non pensare a niente. Rappresenta questa consapevolezza di accettare i difetti e le paure. Il momento in cui ho tirato fuori il cuore (e il fegato) era quando non ero sotto i riflettori, che non facevo le mie canzoni dal vivo, in casa da solo. Anche la solitudine porta a questa quiete: mi diceva sempre mia sorella che le disturbava il fatto di trovarmi a volte felicissimo e a volte tristissimo. Era così, ma adesso sto equilibrando piano piano.
Così, altrettanto forte è l’anima cittadina, urbana di Motta, pisano trapiantato a Roma da anni e innamorato della città, (de)cantata alla sua maniera in “Roma stasera”, dall’anima quasi afrobeat. Lontano da romanticismi bucolici e (tra)sognati.
Ero affascinato dalla città, da tutto, perfino dallo schifo. “Roma stasera” è quel non bisogno di campagna, di stare in mezzo alla gente: non sono più così, non ho più così bisogno di schifo come in quel periodo, ma avevo bisogno di parlare con la gente, per capire. Ho questa malattia sociologica.
Scrivere canzoni e metterci la faccia significa dare tutto se stesso nelle canzoni. Ad esempio, “Mio padre era comunista”, con le sue chitarre acustiche taglienti, i beat elettronici, i ritmi in levare e il tipico strumming “sinigalliano”, stupisce per la sincerità con cui Francesco parla della propria famiglia e, quindi, di riflesso direttamente di sé.
“Mio padre era comunista” è uno dei pezzi in cui ho messo il cuore sul tavolo. Una volta andai da Riccardo per provare a campionare dei canti mozambicani, di alcuni dischi “di quando mio padre era comunista”. È stato lui a suggerirmi di scrivere un pezzo a riguardo. Per scrivere l’ultima frase ci ho messo sei mesi. È dedicata a mia sorella. La canzone è dedicata alla mia famiglia, che amo: vivono a Livorno e mia sorella ha avuto un figlio da un po’. Gli equilibri stanno cambiando e io sono distante, mi spiace di non esser lì a vedere tutti questi cambiamenti, giorno per giorno. Nella canzone c’è amore e nostalgia: una malinconia che mi piace.
Con i suoi momenti più intimi – come la title track o la conclusiva e full-acoustic “Abbiamo vinto un’altra guerra” – e gli episodi più ballabili, con il single “Prima o poi ci passerà” a battere il tempo del disco, emerge la ricerca musicale fondante dell’album: un’architettura sonora precisa e d’impatto, con la voglia di suonare unica e diversa da tutto il resto che gira adesso. Addirittura, in buona parte dei brani Francesco evita perfino di usare l’intonazione standard per accordare gli strumenti.
È nato per gioco, per caso, prendevo la chitarra e magari c’era il la che era un po’ sopra, e mi dava noia il fatto di pigiare un accordatore e un cinesino dentro mi diceva che andava bene accordare la chitarra su quelle frequenze. A Riccardo è piaciuta molto come idea, ma quando sono arrivati altri è stato difficile: ci siamo abituati ad accordarci ad orecchio, ma non essendoci perfezione nelle accordature abbiamo dovuto trovare un equilibrio. Se alzi solo un po’ il pianoforte in “Abbiamo vinto un’altra guerra” si sente che è tutto scordato. C’è anche la soddisfazione di dire che nessun pezzo suona uguale all’altro. Non tutti i pezzi son stati fatti così però, perché c’era anche il bisogno di rientrare nella normalità.
La fine dei vent’anni è un disco di opposti, che cammina su una linea di confine. Francesco, o forse Motta, cerca e trova se stesso alla fine di un’età strana e difficile, che più che risposte genera domande. Dalle quali partire per provare a costruire una propria identità, senza lasciarsi sommergere. Magari per trovare la felicità.
Per me questa identità arriva alla fine dei vent’anni. Io il cambio di età lo vivevo molto male, ma poi quando ci arrivi scatta qualcosa, ed è bello. Ha ragione mia madre, che insegna didattica della matematica, quando dice che non siamo preparati ai problemi: abbiamo una educazione che ci fa scappare da loro. Difficilmente accettiamo il fallimento in qualcosa, invece di capire ed accettare gli sbagli. Non ci si sente mai adatti. Però non sentirsi adatti è l’inizio di una consapevolezza, e a vent’anni non pensi mai a certe cose. Poi gli sbagli si trasformano in cose belle. Non so come, ma diventano altri tipi di soddisfazioni. Non per forza il passato deve essere sinonimo di esperienza, così come l’età. La felicità la cerco perché so che non si potrà mai avere. Ma ora sto bene, quindi spero che sia l’inizio di una nuova vita. Che mi sta piacendo molto.
E così, partito da lontano e di colpo arrivato ad esser contento, Francesco incontra Motta alla fine dei vent’anni e sforna un album bello ed importante. Il colpo è forte e le note sembrano quelle giuste.
Le sto cercando, sto cercando anche le note giuste.
Riccardo De Stefano
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