– di Martina Rossato –
In un mondo che troppo spesso svilisce l’amore a semplice cliché, Francesco Di Bella torna con un disco che lo celebra in tutta la sua complessità, profondità e bellezza. Acqua Santa è un viaggio sonoro che esplora l’amore come atto di fede e sacrificio, come collante tra le persone e antidoto contro l’individualismo dilagante. Con un sound intimo e essenziale, l’artista partenopeo presenta un’opera che non ha paura di entrare nei territori più difficili del cuore umano, da quelli dolci e protettivi a quelli più tempestosi e conflittuali.
Un album poetico, politico e profondamente umano che arriva a sette anni di distanza dal precedente O’Diavolo, con l’intento di unire, più che dividere. Un progetto che invita a riflettere su ciò che veramente conta, proprio quando tutto sembra volerci separare.
Sembrerebbe essere in voga un ritorno alle tradizioni da parte dei giovani, rappresentato anche da un crescente interesse nei confronti dei dialetti e delle lingue locali. Come è percepita la tua musica dal pubblico più giovane?
È vero, oggi anche grazie al genere urban si ascolta molta più musica in lingua o dialetto ma questo è un processo partito già nei ‘90 con il rap e la world music.
Ho sempre scritto e cantato in napoletano e non l’ho mai sentito un limite, anzi probabilmente è sempre stato percepito come una sorta di poesia di strada. Un linguaggio molto diretto cosa che ha sempre avvicinato le persone giovani e credo che attualmente sia ancora così.
Come sta cambiando, dal tuo punto di vista, la tradizione musicale italiana? Parleresti di evoluzione o involuzione?
Non credo che ci siano grandi cambiamenti in atto, la musica è in costante e lenta evoluzione ma non vedo una grande rottura con il passato, anzi spesso mi capita di ascoltare cose in qualche modo già sentite, specie nel cantautorato ma non ci trovo niente di male. Tutto si costruisce sulla base di cose già esistenti.
Ti sembra che oggi ci sia un ritorno a un mondo più vicino a quello dei nostri nonni, oppure credi che i valori siano cambiati?
I valori sono molto cambiati e credo che dello spirito di sacrificio dei nostri nonni ci sia poca traccia. Sarebbe importante recuperare alcuni di quei valori per creare un maggiore senso di collettività. Probabilmente qualcuno ci sta pensando e si è alla ricerca di valori che uniscano anziché dividere.
È più comune sentire parlare di progetti artistici portati avanti in dialetto al Sud rispetto al Nord. Pensi sia dovuto a un maggiore attaccamento alle proprie origini?
Sicuramente, anche se sono convinto che questo dipenda anche dal fatto che ad esempio a Napoli ci sia sempre stata una forte tradizione musicale capace di essere riconosciuta e rispettata a livello mondiale.
Quali sono stati, se ce ne sono stati per te, dei punti di riferimento a livello artistico e come sono cambiati nel tempo?
Compro dischi da quando avevo dodici anni e ne ho collezionati migliaia, ho avuto tantissimi punti di riferimento a livello musicale e continuo ad averne. Ultimamente mi sono piaciuti molto i dischi di Demon Albarn, Kevin Morby, Andy Shauf ma potrei elencarne decine, oltre ad avere sempre in Bob Dylan il faro principale perché in lui musica e letteratura vanno di pari passo.
Come è andata la collaborazione con Colapesce e con Alice?
Con Lorenzo ci eravamo promessi di collaborare già qualche anno fa, quando fui invitato a suonare un paio di brani alla chiusura del tour di Infedele. Mi è sempre piaciuto tantissimo il suo lavoro e abbiamo un sacco di punti di riferimento in comune.
In quanto ad Alice, mi sono appassionato al lavoro dei Thrucollected e mi è venuto in mente di scrivere una canzone su Napoli insieme a lei perché la trovo una cantautrice molto brava.
L’espressività è una componente centrale della tua musica. Come definiresti il tuo stile in relazione alla capacità di trasmettere emozioni?
Ho sempre giocato molto con la mia emotività sia in fase di scrittura che dal vivo, non saprei come definirmi ma posso dire che sicuramente non mi risparmio mai.
Dopo sette anni dal tuo ultimo disco, hai sentito un cambiamento significativo nel tuo approccio alla scrittura?
No, mi ci è solamente voluto del tempo per metabolizzare un po’ di ingredienti che sono alla base del mio processo creativo e quindi ascolti, letture, riflessioni sulla società che piano piano hanno fatto venire a galla le canzoni.
Come hai conosciuto Marco Giudici e come è andato il lavoro con lui?
Ho sempre le antenne dritte sulla scena italiana e grazie a qualche suggerimento ho scoperto il suo lavoro che mi è piaciuto tantissimo e così gli ho dato carta bianca e lui ha ripagato questa fiducia con un lavoro pieno di creatività.
Cosa significa per te condivisione? La vedi come una scelta politica, artistica, o entrambe?
Esatto, condividere oggi può essere considerato un atto politico oltre che una scelta artistica. Bisogna dare fiducia agli altri altrimenti si resta isolati e si perde l’empatia necessaria per essere altruisti e mettere a posto un po’ di cose in una società che va sempre di più verso un individualismo esagerato.