di Riccardo De Stefano.
L’Officina della camomilla non bastava più a Francesco De Leo. Abbandonati gli orpelli, ha trovato casa in Bomba Dischi e un compagno fidato in Giorgio Poi, produttore del suo esordio: tutti ingredienti giusti per rendere La Malanoche un successo. Peccato che in tutto il disco non si trovi una sola idea musicale degna di questo nome. L’album non solo non sta in piedi, ma fatica perfino a strisciare per terra: tolta la terribile Andiamo a rischiare la vita, che ha almeno il pregio di essere breve, c’è poco da dire.
De Leo sbiascica le sue vocali aperte su otto tracce a malapena distinguibili l’una dall’altra (e quando lo sono il merito è di Poi), mostrando la pochezza artistica del suo protagonista: se si fa il pop, servono le melodie; se si vuole essere atmosferici, serve il carisma; mancano i testi interessanti, mancano i ritornelli forti (Calcutta dove sei?).
L’unica via di uscita è sperare che La Malanoche sia una burla, un’imitazione di un genere musicale (e Lo zoo di Torino sembra una parodia in stile Pop X), altrimenti si rimane sgomenti di fronte alla pochezza di questo disco.