È da cinque anni a questa parte che Matteo Fiorino porta il suo album, Il Masochismo provoca dipendenza, in lungo e in largo per l’Italia. È lui a raccontarcelo, un po’ stressato da tutto ciò. Vuole fare qualcosa di diverso, vuole dare una ventata di aria fresca al suo unico lavoro; poggia la chitarra acustica e impugna la telecaster. Qualche amplificatore e una band bastano per quello che vuole fare. L’anno inizia con il Tour Elettrico di Fine Masochismo, un titolo bizzarro e divertente che però non segna una fine, ma preannuncia un nuovo inizio. “Nulla si crea e nulla si distrugge”, mi ricorda lui stesso ad un certo punto nell’intervista.
In cantiere (con lui le metafore nautiche vengono spontanee) ci sono nuovi brani e nuove idee; è tempo quindi di dare il giusto addio all’album che l’ha lanciato come musicista. Un addio che almeno è tutt’altro che malinconico!
La data romana ha come location Le Mura, nei pressi di San Lorenzo. Per una serie di equivoci non riusciamo a incontrarci subito e rimango ad osservare il palco già allestito. Alla fine riusciamo con un po’ di ritardo a incontrarci e ci accomodiamo su due poltrone.
È giusto cominciare chiedendoti riguardo te e il tuo progetto. So che hai avuto una vita molto movimentata, piena di impegni molto diversi gli uni dagli altri per altro; come hai deciso alla fine di dedicarti a piene mani alla carriera musicale e di pubblicare Il Masochismo Provoca Dipendenza?
Guarda io mi sono laureato molto tardi, verso i ventinove anni e dopo ho provato a fare un concorso per vincere un dottorato che poi non ho vinto. Per una serie contingenze economiche mi sono ritrovato tra le mani un po’ di brani più qualche di cover, e quindi ho cominciato a fare live in giro. All’epoca in appoggio, come città di base diciamo, ero a Bologna; parliamo dei primi mesi del 2011 e nel giro di qualche mese mi sono messo a lavorare al primo ep, che è uscito nell’agosto dello stesso anno. Nel frattempo ho avviato questo progetto, questa carriera se così si vuole chiamarla; e poi ho continuato questa strada di musicista, che comunque perseguo a quelli che sono i minimi sindacali. Per reggere poi alle varie spese mi imbarco in estate, o almeno fino ad adesso ho sempre fatto così, a fare il cuoco o il marinaio su questi yot privati a vela o a motore.
Parliamo adesso del disco, Il Masochismo Provoca Dipendenza appunto: è un lavoro molto particolare, nel senso di eclettico e molto personale. Quando hai finito di registrarlo non hai avuto paura che potesse risultare un lavoro confuso?
Sì, certo! Ce l’ho ancora adesso!
Solo che sai, mi mancava una figura che fosse un produttore che a volte non è altro che un orecchio esterno che ti dia le coordinate per rendere più convincente il tuo lavoro, soprattutto in un caso come questo che ci sono dieci canzoni che vanno dal reggae allo stoner, allo stornello e anche alla bossa nova che sono tutti dei generi inconciliabili. Quindi c’è di base un sound più o meno elettroacustico, molti rimandi agli anni ’60 e così via, ma in realtà non possiamo parlare di un vero e proprio sound. Le canzoni le suono così come mi vengono, in studio poi ho cercato di farle uscire senza privare le canzoni degli ingredienti che caratterizzano il genere a cui sono improntate, facendo comunque in modo che risultino come un prodotto italiano: se volessi fare un pezzo reggae ad esempio non mi rifarei a Bob Marley ma a E la Luna Bussò di Loredana Bertè.
Questo di certo non basta per trovare un sound, ma c’è anche da dire che questo non era il mio obiettivo, la mia priorità ecco. Volevo vedere quanto ero capace come sperimentatore e come arrangiatore.
Sembra trapelare da quest’album che tu abbia un animo da cantastorie e che ti piaccia raccontare delle storie che alle volte sono tue e alle volte no. Il discorso è a questo punto: Fiorino sei veramente tu o è come un tuo alter ego?
Io sono Matteo Fiorino all’anagrafe, quindi fino a qui sono io. No un cantastorie non credo comunque; mi piace raccontare delle storie, ma il lavoro che faccio io sulla forma canzone è diverso da quello del cantastorie. Per me un cantastorie di adesso, seppur con riferimenti pop e a roba inglese, è Edoardo Cremonese. Lui secondo me è un cantautore che prende una canzone e gli da uno sviluppo da racconto. Il livello di lettura è quello, è narrativo, mentre nel mio lavoro c’è più un intreccio di più livelli. Ci sono un paio di canzoni che hanno questa struttura narrativa, come Mauro e Verme Solitario Antropomorfo, che sono in effetti più narrative, ma le altre sono diverse, ermetiche a volte. Quindi no, non direi cantastorie.
Si sente, in un sacco di brani del tuo album, una forte centralità dei personaggi femminili: l’immagine che dai nelle tue canzoni è comunque quella di una donna strega , una femme fatale. È quella l’immagine che hai avuto nelle tue esperienze o è diciamo più che altro l’immagine che ti piace raccontare perché più intrigante nel lavoro di scrittura?
No io mi sono molto rifatto alle mie esperienze sentimentali, quindi la femme fatale diventa tale nel momento in cui tu le attribuisci quel ruolo nella tua vita. In quel momento in cui scrivevo avevo messo fine ad una storia molto importante per la mia vita, però in mancanza di sufficiente autostima e volontà per voltare pagina, mi sono concentrato in maniera molto masochista, appunto, su questa persona quindi ho sofferto quello che si tende a soffrire quando ci si concentra su un amore che ti viene negato, in questo caso un lutto sperimentale. Alle volte sono i sensi di colpa che ci aiutano ad ingigantire l’immagine che abbiamo di una persona, dato che anche io ho fatto degli errori in questa storia. È stato, in un certo senso, un risarcimento morale che io ho voluto fare a me stesso scrivendo queste canzoni.
Poi sì la femme fatale si presta benissimo a quei cliché narrativi, poiché ogni uomo ne ha una o comunque tende a cercarla; ripeto comunque che sono esperienze di vita vissuta e non trovate narrative.
Si sente tantissimo all’interno del tuo album l’ispirazione a Lucio Dalla; ne è quasi una dedica il brano La Buona Occasione. Quali sono le tue ispirazioni?
Allora Dalla è venuto molto fuori all’interno di quella canzone perché era un periodo in cui ascoltavo molto Dalla, ma se uno ascolta attentamente si renderà conto che c’è anche molto di Paolo Conte in quella canzone. La progressione armonica degli accordi è chiaramente contiana, e forse giusto l’aspetto sonoro ricorda di più Dalla. In realtà Dalla non mi interessa più di tanto: quell’album lì in particolare è una dedica ma molto filtrata e passa anche attraverso Ivan Graziani, Bennato, Rino Gaetano, ma anche a Gianfranco Manfredi, un cantautore che poi si è messo a fare lo sceneggiatore per i fumetti della Bonelli. Ma anche Roberto Vecchioni! Ivan Graziani, Roberto Vecchioni e Rino Gaetano sono quelli che mi sento più in dovere di citare come fonti d’ispirazione.
Ci sono molti riferimenti anche al southern rock, al rock ‘n roll, al post rock, allo stoner, e mi viene in mente di citare i Fugazi, che penso però di ascoltare solo io. Se c’è un continente che mi ispira è molto più l’America rispetto all’Europa.
Ci lasci con qualche progetto per il futuro? Qualche cosa che pensi di fare a fine tour?
Sicuramente ora mi metto a lavorare ai nuovi brani e poi uscirà un singolo tra qualche mese.
Ci salutiamo e ci avviamo entrambi verso il palco, ai lati opposti della barricata.
Davide Cuccurugnani