Abbiamo incrociato il cammino dei VillaZuk in una sera di inizio primavera. Il periodo ideale a pensarci bene, visto quanto è presente ed avvolgente la natura nelle loro atmosfere sfumate di country. Lo scenario è quello de L’Asino che Vola, eravamo a Roma, ma la loro Calabria, tanto il mare quanto i monti della Sila e tutto l’immaginario collegato, ce lo hanno portato loro. E senza alcuno sforzo, semplicemente sedendosi a parlare e poi facendoci sentire la loro musica. Semplicemente essendo se stessi insomma.
A rispondere alle domande è Domenico Scarcello, autore e voce della band che ad ottobre scorso è tornata a pubblicare il singolo “Quando tutti dormono”, facendo presagire la prossima uscita di un nuovo disco, dopo “…a colorare libertà” del 2010 e “Meno male Robertino” del 2013.
“Il disco è in programma – conferma Domenico – ma ci stiamo muovendo con calma per capire la direzione giusta da prendere. Sarà il terzo, con un po’ di ritardo dal secondo – dice con un sorriso. A breve però lanceremo un altro singolo, “Siamo tutti salvi”, che poi è anche il nome di questo tour”.
Già, il tour. Una dimensione quella del live, in cui i VillaZuk sono nel loro elemento naturale, tanto da andare a suonare in tutta Italia ogni anno dal 2013 ad ora, senza un nuovo disco ma sempre con lo stesso risultato: il locale che si riempie di loro conterranei, che se ne portano dietro altri, che poi magari portano anche qualche amico che conterraneo non è, ed ogni concerto finisce per essere una festa.
Il terzo disco sarà anche un po’ in ritardo quindi, ma nel frattempo i VillaZuk non sono stati con le mani in mano e le esperienze, una più interessante dell’altra, si sono moltiplicate.
A cominciare dai due corsi di musica e scrittura di canzoni, tenuti nel carcere di Cosenza ai detenuti:
“La cosa più bella è che questo ci fu proposto da associazioni nazionali, che semplicemente avevano ascoltato le tematiche dei nostri brani, che non parlavano ancora di carceri in realtà, ma sono state ritenute idonee. E’ stata un’esperienza spettacolare, all’inizio faceva anche un po’ paura, ti vedi chiudere dietro queste cancellate con i pistoni, e quello di Cosenza per quanto sia un buon carcere, è un ambiente tutt’altro che semplice. Ma ho impresse le facce di questi 40/45enni che dal primo attimo, ti attaccano lo sguardo addosso, con le sopracciglia inarcate dalla meraviglia e poi, dopo qualche settimana, con tutto il bagaglio di cose per niente carine che si portavano dietro, a piangere emozionati sul palco, nella giornata finale. Il carcere ci ha regalato la consapevolezza di quanto ancora sia enorme il potere di questa arte, della musica, che anche lì dentro è riuscita a smuovere così tanto.
C’è stato poi il premio della critica di Amnesty International, il pezzo Fiorecrì scelto come “colonna sonora” della manifestazione per il SI al referendum del 2011, altri riconoscimenti, concorsi e premi, tipo il “San Francesco Saverio”, che viene conferito ogni anno alle eccellenze Calabresi, o la finale del 1MNext (il concorso che porta quattro gruppi emergenti a suonare sul palco del 1° Maggio di Roma, ndc).
“E stiamo aspettando la finale del Premio De André, siamo nei primi 13 su 780 partecipanti, ma per la prima volta in 16 anni che esiste la manifestazione, la finale è stata rinviata due volte. Tra poco sarà passato un anno dall’ultima esibizione, comincia ad essere un po’ pesante…”
Proprio “Fiorecrì” è ancora, dato anche l’eco di cui ha goduto nel 2011, il pezzo probabilmente più rappresentativo, seguito a ruota dal singolo e title track del secondo disco, “Meno male Robertino”:
“Fiorecrì ci ha fatto vivere il passamano da macchina a macchina, da radio a radio, ma devo dire che ovunque andiamo, in dosi diverse, c’è sempre chi ci conosce grazie a quei 4-5 brani, che riescono anche a veicolare il pubblico sulle altre nostre cose. Per noi le canzoni sono tutte figlie uguali, però la realtà innegabile è che ci sono dei brani più rappresentativi. Poi Fiorecrì e Meno male Robertino vengono da due album simili, ma diversi, dentro al secondo disco c’è una maturità di vita, di esperienze personali, maggiore rispetto alla spontaneità giullaresca del primo”.
E maturare significa cambiare, ma i cambiamenti sono naturali se avvengono in fedeltà con se stessi:
“Ogni progetto, ogni percorso, devi farlo al massimo delle tue potenzialità. Se fai sempre il massimo poi non avrai rimpianti. Crescere è anche riconoscere che ora una cosa l’avresti fatta diversamente e non vuol dire rinnegare ciò che si era o che si è fatto prima, perché naturalmente succede, col tempo, di conoscere nuove cose, quindi ciò che fai oggi al massimo delle tue possibilità è figlio anche dell’esperienza del passato. Ciò significa ogni volta, cercare di fare qualcosa che per te sia più bello, più appagante artisticamente di ciò che hai già fatto”.
Tutto questo per una band, si traduce, oltre che nel live, in un lavoro in studio sempre più consapevole:
“Siamo sempre stati abbastanza poliedrici come “estrazione musicale” dei singoli componenti del gruppo, una bella macedonia. Che è venuta piuttosto naturale in adolescenza. I primi dischi sono stati creati con il pensiero di cosa saremmo andati a fare dal vivo, quindi con ben 8 elementi. Adesso ci siamo ridimensionati a 5, e stiamo riscoprendo una libertà pazzesca, sia nella stesura dei brani che nella professionalità, perché in meno elementi sei più band che orchestra e se da una parte hai più responsabilità, hai anche più piacere di ascoltare ogni minimo particolare di quello che fai e che fanno gli altri”.
Negli anni e nella maturazione, c’è qualcosa che non cambia ed anzi, se possibile si fortifica: le radici, il legame con la vostra terra, anche in barba ad un mercato che si sviluppa da tutt’altra parte:
“Io penso una cosa: se il percorso di una persona, chiunque sia e dovunque sia, non ha un legame forte con il luogo dov’è cresciuto vuol dire che qualcosa non va.
Noi in 5 anni abbiamo suonato in tutta Italia, quando hai poco più di 20 anni e vedi dove gira il mercato discografico, ti dici “accidenti, ma perché non sono nato a Roma o a Milano”. Ma poi cresci e ti rendi conto che ciò che hai fatto e che sei diventato, sarebbe stato assolutamente diverso.
C’è da dire che siamo molto più una realtà da live che da discografia ed è questa la differenza fondamentale tra le produzioni. In questo paradossalmente siamo fortunati, perché il pubblico continua a premiarci. Noi calabresi siamo i cinesi d’Italia (ride), e capita ad esempio che andiamo a Torino e pur non pubblicizzati per un disguido nell’organizzazione, abbiamo un locale pieno di conterranei che vengono ad abbracciarci o a conoscerci. Questa componente è fortissima, quindi come facciamo a non essere attaccati alle nostre radici? Veniamo da quello, ci siamo sempre autoprodotti e se ci chiamano a suonare ovunque, è perché il nostro pubblico ci ha fatto conoscere ai locali, non viceversa”.
L’Asino che Vola in effetti, era pieno di calabresi entusiasti di ritrovare un pezzetto della loro terra nel cuore di Roma. Ma c’ero anche io ed anche altri, che calabresi non siamo e che magari come nel mio caso, quei luoghi non li abbiamo nemmeno mai visitati. Ma la magia dei VillaZuk è proprio che quelle suggestioni, non si sa bene come, te le fanno sentire anche quando non cantano in dialetto, anche quando non raccontano storie di quei luoghi, perché i luoghi sono talmente dentro di loro che vengono fuori da soli.
“Quando fai il pezzo in dialetto non ti senti mai solo – ammette Domenico – ma è altrettanto bello quando ti capita di farlo in posti lontani dalla Calabria, tipo sulle Alpi dove abbiamo fatto un ferragosto, e lì di meridionali non c’era nemmeno l’ombra eh… Ma smussando qualcosa qua e là, aiutandoti con i gesti, con gli sguardi, riesci a far interpretare anche a loro qualcosa in dialetto e fargli sentire un po’ più vicina una realtà così lontana. Senza perdere l’identità, anche perché cantare in dialetto è come cantare in inglese ed alcune cose non puoi tradurle, non puoi cantarle in maniera diversa”.
E diciamolo, ogni tour porta in dote un momento speciale, quello in cui si torna a casa:
“Quando giriamo molto, ad un certo punto ne sentiamo anche il bisogno. Io ad esempio ho bisogno di vedere le montagne della Sila, se mi porti in un posto in cui si vede solo pianura a perdita d’occhio, io impazzisco. In fondo – conclude Domenico – quando ti stendi sul divano hai bisogno di sentirti coccolato dalla sponda dietro”.
Bellissima intervista. È stata magnificamente colta l’essenza che muove i villaZuk ….bravo Domenico, bravo Riccardo, bravissimi tutti. Ah osanna anche al fotografo.