“Nemo propheta in patria”: questo potrebbe essere un eventuale sottotitolo al nome di Fil Bo Riva, al secolo Filippo Bonamici. Ma è pronto per cambiare la rotta, tra pop, folk e rock . Ha 26 anni, è nato a Roma e si è trasferito prima a Dublino e poi a Berlino, dove ha incontrato il chitarrista Felix A. Remm e il produttore Robert Stephenson e con loro ha registrato nel 2016 il suo primo EP “If you’re right, it’s alright”. Il 22 marzo uscirà il suo album di esordio “Beautiful Sadness”, anticipato dai singoli “Go rilla” e “L’over” e poi partirà il tour che in Italia interesserà Milano, Bologna, Torino e Roma.
Il 12 Gennaio ha aperto il concerto di Aurora all’Auditorium Parco della Musica e ho avuto la possibilità di intervistarlo nel pomeriggio prima dell’esibizione. Ecco il risultato della nostra chiacchierata.
Come mai hai scelto il nome Fil Bo Riva e quali sono i tuoi riferimenti musicali, anche quelli che non si percepiscono direttamente sentendo i tuoi pezzi? Qual è l’ultimo concerto a cui sei stato e l’ultimo disco che hai comprato?
Fil Bo deriva da Filippo Bonamici e Riva è uscito fuori così, come quando prendi un quaderno pieno di nomi e ne scegli uno a caso. Mi piaceva anche la combinazione delle tre parole, un po’ come Lana Del Rey, per una questione di pronuncia. Ho iniziato ad avere i primi gruppi qui a Roma e dopo qualche anno mi sono trasferito a Dublino, per andare in collegio e lì ho sviluppato ancora l’amore per la musica in direzione un po’ più folk, indie inglese. I Beatles sono quelli che amo più di tutti. Ascoltavo molto The Libertines, gli Oasis, musica da chitarra anni ‘90, poi Strokes e Arctic Monkeys oggi. Chitarra, tanta chitarra. L’ultimo concerto a cui sono stato è quello dei The Last Shadow Puppets, il gruppo di Alex Turner e l’ultimo disco che ho comprato è quello degli Arctic Monkeys.
Nato a Roma, per “punizione” finito a Dublino, trasferito a Berlino: questo mix, sempre in riferimento alla tua formazione, ha fatto in modo che tu riuscissi a distinguerti da quello che ora è in voga in Italia. Pensi che sia più faticoso o più necessario farsi spazio qui, tra questo tipo di preferenze? O forse è quasi un vantaggio? Da quanto tempo manchi artisticamente in Italia?
Con l’EP abbiamo avuto riscontro principalmente all’estero, dall’Inghilterra alla Germania alla Francia, in Italia sempre poco. Ho sempre sperato di poter suonare qui a Roma o a Milano, quando abbiamo venduto quel tot di biglietti al Magnolia ero già abbastanza felice, ma non mi sono mai aspettato di funzionare nel modo in cui funzioniamo in Germania oppure in Olanda o in Danimarca, perché dipende anche dal tipo di cultura in cui uno cresce e, magari, lo si fa con un altro genere. Senza definire se sia bello o brutto, semplicemente un altro genere.
Dopo l’uscita dell’EP nel 2016, uscirà il prossimo 22 marzo il tuo primo album, anticipato dal singolo “Go rilla”, accompagnato da un video molto filmico. Parlami del tour, soprattutto in relazione alle tappe italiane.
Nello scorso tour abbiamo fatto solo una data a Milano, invece adesso abbiamo detto: “OK, proviamo a fare 4 date”, ci saranno Roma, Milano, Torino e Bologna. Per vedere, così, se funziona o no, vediamo come va. Com’è capitato a Londra, magari, che la prima volta abbiamo venduto 100 biglietti, la volta dopo 400, poi 600. Piano piano si butta sempre più attenzione sul nome.
Mandato in collegio a Dublino per castigo, hai iniziato a suonare “per colpa” di una ragazza che ti ha lasciato: insomma, la tua è una vita artistica che nasce dalla sofferenza. Quasi una catarsi. Almeno questo ti ha fatto iniziare. Cosa ti fa continuare?
Sì, vero, anche l’album si chiama “Beautiful Sadness”, infatti quando sono felice non riesco a fare niente: esco, vado da amici, un po’ come diceva Tenco. Mi fa continuare l’amore per la musica, l’amore di sapere e condividere cosa esce dalla mia testa, riuscire a farlo diventare un qualcosa che chiunque voglia può sentire. La creatività, il desiderio di far uscire qualcosa da me, io che mi ascolto, chiudo gli occhi e dico “ah, mi piace!”: questo è ciò che trovo più stimolante.
Prima di riascoltarlo al Monk nel prossimo Aprile, mi sono goduta la sua mezz’ora di live all’Auditorium, in formazione trio. Un cantautore veramente molto interessante, che ricorda, per molti versi, la freschezza e l’eleganza di Paolo Nutini. Da conoscere.
Dopo Fil Bo Riva, non si fa attendere questo esserino fatato di nome Aurora, accompagnata da musicisti sopraffini. La norvegese Aurora Aksnes e il suo elettropop sono di diritto eredi del mondo incantato di Björk. Giovanissima, ha già tre album di successo all’attivo, di cui l’ultimo è “Infections of a Different Kind – Step I”. Presto sentiremo la sua cover di “Baby Mine” nei titoli di coda del “Dumbo” di Tim Burton.
Aurora crede e diffonde l’Amore Universale, il sentirsi uniti con la natura, l’amarci l’un l’altro incondizionatamente in un regno di pace. È artista a tuttotondo, dipinge e ha creato per se stessa artwork per le sue copertine. Si dice che sia sempre stata indicata come “strana”, ma lei si sente semplicemente libera e invita tutti a esserlo. Danza sul palco come crede, senza costrizioni, convenzioni e regole. Lascia che l’energia possa fluire senza filtri.
È stato un live eccezionale, intenso, pieno di sensazioni e vibrazioni positive. Lei molte volte ha manifestato quasi uno stupore per la sala piena, la sua consacrazione a Roma, salutandoci tutti, quasi alle lacrime. Ci ha ricordato che importanza abbia essere coscienti dei sentimenti, degli altri e di ciò che ci circonda. Ha tolto le scarpe, ha mostrato orgogliosamente la bandiera della pace che le hanno consegnato dal pubblico, si è emozionata, ci ha raccontato aneddoti della sua quotidianità. Ma, soprattutto, ci ha incitato a essere liberi, genuini e, il pubblico estasiato, coinvolto, dopo aver scalpitato a una serie di suoi brani, nuovi e degli scorsi album, dopo “Running with the Wolves”, non ha più resistito e si è lanciato sotto il palco a ballare e a cantare con lei. Aurora era molto più contenta che fossimo lì insieme a lei e non seduti.
Chiudo la serata con un sorriso, con l’immagine di questo piccolo elfo colmo di luce, come dice il suo stesso nome, negli occhi ho i colori della bandiera arcobaleno, in testa suo messaggio, il suo invito a essere noi stessi, sempre. E come me, rispetto a quando siamo entrati, tornando a casa erano un bel po’ più felici anche tutti gli altri.