Sono Mirko Ravaioli e Luigi Maresca e qui ritroviamo a pieno titolo anche la firma di Lorenzo Montanà, sia in veste di musicista che di produttore. “Io volai” è il nuovo disco dei Fermoimmagine, lavoro intimo e sospeso, sollevato da terra ma non distaccato dal quotidiano. Disco digitale dentro cui l’uomo e la sua parola trovano ampio spazio di esistenza e concretezza. Disco che induce alla riflessione prima e alla contemplazione poi. E questa immagine di copertina poi è un vero e proprio manifesto allegorico alla vita…
Fermoimmagine è un moniker assolutamente pregno di significati. Soprattutto oggi che corriamo ovunque: è un nome di rivoluzione e di resistenza al tempo di oggi?
Si, può essere pensato come un nome rivoluzionario considerando la frenesia e la superficialità di questi tempi, ma non lo abbiamo scelto per questo: l’idea del fermo immagine su alcuni dettagli della vita fatta di ricordi, pensieri e momenti vissuti sono gli aspetti che ci interessano di più.
Serve più a noi stessi, rende bene l’idea del tipo di canzoni che suoniamo: dove la musica è estremamente funzionale ad un testo che non è un semplice riempitivo.
Raccontiamo brevi storie, sensazioni e sentimenti.
Che poi tutto il disco è ricco di spazi aperti e modi lenti di ricamare le melodie. La lentezza è un ingrediente importante per voi?
Sì la lentezza è fondamentale, ed è dimostrato dai tempi di realizzazione di questo disco: “verso casa” è il primo pezzo ed è stato scritto nel lontano 2018.
C’è voluto qualche anno prima di poter finire questo album estremamente autobiografico.
In qualche modo la lentezza è rivoluzionaria, è assolutamente l’antitesi di questo nostro vivere attuale sempre di corsa, con tempi stretti, con scadenze, dove tutto viene fagocitato con superficialità e una leggerezza che in questo caso non è affatto positiva.
Altro protagonista assoluto è l’elettronica: perché questa scelta futuristica? Il suono per i Fermoimmagine che strade sta prendendo?
Noi siamo stati sempre elettronici perché i nostri riferimenti vengono anche da lì: synth pop, electro pop, new wave anni 80, ecc…
Però ho sempre preferito un tipo di elettronica estremamente equilibrata, non chiassosa, che non coprisse il testo ma che anzi lo valorizzasse.
C’è tanta sofferenza tra le righe del disco. In fondo tutto nasce molto prima della pandemia e si dipana – con lentezza – nel tempo a seguire. Cosa avete raccolto strada facendo? Quale tipo e grado di consapevolezza?
Per quel che mi riguarda scrivere canzoni è un raccontarmi, è terapeutico e mi permette di esprimere quello che provo, che vedo e che sento.
Questo è il disco più autobiografico che abbiamo realizzato e per questo il più doloroso perché ricco di tematiche non facili da affrontare.
È stato più facile farlo con la musica: semplicemente parlandone a voce non credo ne sarei stato capace.
E oggi per voi fare un disco, nel tempo frenetico della somma indifferenza per la musica, che cosa significa e che responsabilità gli affidate?
Di questi tempi fare un disco, scrivere canzoni e suonare la propria musica è una cosa assai difficile: a volte mi chiedo quanto senso abbia andare ancora avanti quando in realtà c’è pochissima se non nessuna attenzione verso piccole realtà indipendenti come la nostra.
Se sei un musicista famosissimo gli stadi si riempiono; se si tratta di andare a sentire un gruppo semisconosciuto in un piccolo locale della propria città la cosa non desta alcun interesse. Non c’è più voglia e curiosità nello scoprire musica che non sia la solita, la più conosciuta, quella che passa sempre per radio.
Noi andiamo avanti lo stesso perché ci piace suonare, ci appassiona. Fa bene a noi stessi prima di tutto: la musica è un’ottima terapia per il proprio io.
E se riusciamo a fare breccia nel cuore e nella mente anche di una sola persona allora è fatta, è già una grande vittoria.