Questa sera tornano a Roma i Fast animals and slow kids. Al Blackout la band perugina promette di buttare giù il locale, dopo la data invernale dello scorso dicembre al Circolo degli Artisti andata sold-out. Abbiamo raggiunto Aimone Romizi (voce) e Alessandro Guercini (chitarra) per parlarci un po’ di come è andato questo tour e della loro musica.
Ciao ragazzi, il tour invernale è andato veramente molto bene, dalla serata di sold out a Roma di dicembre fino a quella di stasera avete mietuto grandi successi e tanti locali pieni. Non siete per nulla intimoriti da tutta questa mole di pubblico che vi segue?
AR: In realtà per noi è il contrario: più c’è gente, più le persone cantano. A me tutto il pubblico che canta con noi mi fomenta, quando succede non penso più a niente, è un momento incredibile. Magari siamo spaventati dalle aspettative del tour, nel suo successo o meno, ma è solo un’ansia, nulla più.
Il valore aggiunto dei vostri live è proprio nell’interazione con il pubblico, che diventa un membro aggiunto alla band stessa. Come riuscite ad ottenere questa simbiosi tra voi sopra e gli altri sotto il palco?
AR: Secondo me è perché abbiamo sempre suonato qualcosa che avremmo voluto sentire noi. So che è pretenzioso, ma mi piacerebbe avere una band incazzata con cui cantare i pezzi insieme. Nel momento in cui siamo noi a lavorare, studiamo tantissimo per creare una situazione che vorremmo vivere, anche da musicisti, e se non lo ottenessimo avremmo sbagliato tutto.
Dell’ultimo concerto romano mi ricordo la definizione di “ignoranza e puzza” della situazione che deste dal palco. Inoltre c’era un ragazzo che si era quasi rotto il naso davanti a me.
AR: Il nostro è un umorismo che non tutti capiscono, non incitiamo la violenza. La cosa che ci piace è il concetto di “cazzottoni”: uno “muore” per terra, si spacca tutti i denti, ma è fomentato dalla serata, con gli amici intorno.
Io definisco la vostra musica come “rock autoreferenziale depresso”: cantate di voi che non ce la farete, che sparirete via, che “non c’è più speranza”. E invece i risultati dimostrano il contrario.
AG: Infatti nel prossimo disco saremo super felici! Alla fine, quando canti insieme a tutto il pubblico anche le cose più tristi, sembrano diventare quasi allegre.
AR: Noi siamo così, suoniamo le nostre cosine stronze, cantiamo della nostra “vitina” di merda perché emerge qualcosa di più complesso e di più oscuro. Quell’ora e mezzo di concerto serve ad esorcizzare, come un vero innalzamento spirituale. Insomma, sul palco io sbrocco! E inoltre è bello pensare di star cantando di cose che ci sono successe e trovare magari persone che hanno vissuto esattamente le stesse cose. È un modo per condividere qualcosa. Per i nostri live abbiamo proprio studiato. Facciamo i musicisti? Allora dobbiamo imparare a non cedere mai sul versante del miglioramento. Guardandoci intorno alle altre band italiane ci siamo resi conto di essere anni luce indietro, quindi dovevamo studiare per recuperare.
Ormai al terzo disco, avete molti brani da cui attingere per creare la vostra scaletta. Al di là della promozione dell’ultimo disco, come vi orientate nella scelta dei brani? Scegliere dei brani vi mette in difficoltà?
AG: Ci piacciono le scalette dove non hai un attimo di respiro, dove c’è sempre la musica sotto. Con più canzoni in scaletta è meglio, perché possiamo inserire più brani dove ci sono chitarre con la stessa accordatura, così da attaccare meglio certi brani e renderli tutti fluidi e continui, un po’ come nei dischi. Come fossero una unica canzone.
Per il lancio di “Alaska” dovevate fare un tour acustico nei negozi, che poi è saltato. Come vi trovate con in mano le chitarre acustiche? Vi vedremo in futuro in queste vesti?
AR: A me il suonare in acustico piace molto, magari lo potremmo fare integrando quegli strumenti che non possiamo portare sul palco, come mettere una sezione di violini.
AG: In realtà anche in questo tour dovevamo portare anche i violini, avevamo pensato a una super formazione. Purtroppo tecnicamente veniva male, si impastava tutto il suono, visto che suoniamo a volumi assurdi. Quindi la scelta era: o volume o violini; e chiaramente abbiamo optato per la botta di volume sul palco.
Partecipare a un concerto dei FASK, personalmente, è sempre una esperienza di vita. Avete un vero e proprio stile di vita che portate ogni volta con voi sul palco. Cosa provate ogni volta che finite un concerto?
AR: Sinceramente arrivi alla fine del concerto che sei così ridotto una merda, che hai una soddisfazione personale che ti fa dire: “ce l’ho fatta anche stasera, non ci credo”! Infatti son sicuro che moriremo giovani!
Ma si sa tanto che chi non muore giovane ormai non conta nulla. Grazie ragazzi per l’intervista. Non perdetevi stasera al BlackOut i Fast animals and slow kids, senza dubbio tra le migliori band live che l’Italia ha partorito negli ultimi anni.
Riccardo De Stefano