La potenza della musica si è fatta manifesta, nell’ultimo anno e mezzo, in un momento in cui c’è stato tolto tutto quanto. Uno dei macrotemi dei FASK è la consolazione: se facciamo schifo tutti, comunque, qualcosa migliorerà. Questo disco s’inserisce perfettamente in questo flusso: pensi possa avere un’eco per il periodo che abbiamo vissuto? Voi l’avete avuta?
C’è roba scritta un po’ prima e roba scritta durante il lockdown. Anche robe estremamente vicine alla data di uscita. Di sicuro c’è una correlazione con quello che abbiamo vissuto. Mi piace che ognuno faccia proprie queste canzoni e capisca in cosa si può rispecchiare. Però per essere concreti, c’è dentro anche questo periodo e c’è in maniera piuttosto personale. È sicuramente più complesso di “Animali notturni”, forse solo chi ci segue da tanto può capirlo subito.
Come al solito nei tuoi testi c’è molta natura. Sei un amante dei monti, dei paesaggi. Poi c’è un brano come “Rave” che invece sembra qualcosa di completamente avulso dall’immaginario del gruppo, ma anche da voi come persone. Com’è nata l’ispirazione per raccontare o per basarsi su qualcosa apparentemente così lontano dal “mondo FASK”?
Abbiamo dato quel titolo perché ce la immaginavamo come una canzone che dal vivo avesse quel senso di comunione e di partecipazione quasi dispersa, mentalmente astratta, come quella che avviene davanti a un rave, quella parte finale che ci immaginiamo proprio carnale, quel momento in cui le persone ballano per ore e ore. Vorremmo suonare quel finale per due ore durante il live, quindi quando abbiamo dato il titolo abbiamo pensato più che altro all’aspetto musicale, dopo di che c’è anche nel testo il riferimento al “rave di borgata”, ma non è così lontano da tutto il resto. Quella canzone la viviamo – con il solito egocentrismo da FASK – come un consiglio che stiamo incidendo in una roccia millenaria. Ci ricorda, come un promemoria, che quando bisogna fare musica – ma in generale fare qualcosa che ha un valore forte per te stesso – la si deve fare puntando al massimo, cercando di andare verso la luna. È molto facile, in musica, ripetere dei canoni che conosci. È facile tutelare il castello, molto più difficile distruggerlo, ricostruirne un altro più grande di quello precedente, perché ci sono mille motivazioni. Ci sentiamo una band che cerca sempre di distruggere tutto ciò che ha fatto precedentemente per poter rivivere per l’ennesima volta quell’energia prima di un disco, prima del nuovo live, prima di un concerto, in modo da mantenere forte quell’atteggiamento viscerale che abbiamo nei confronti della musica che suoniamo. Questo è un pezzo che punta verso l’alto: se devo rubare, rubo al re, se devo sperare, spero di essere i Beatles. Poi questo non accade, ovviamente, questo non è possibile, ma ci hai provato, quando molto spesso ci si accontenta, invece. Così facendo ci si piega a una visione di se stessi limitata, che in ambito artistico non devi mai avere. C’è sempre la possibilità di poter spingere di più, di crescere. Questo non è connesso al successo, proprio in termini di ispirazione. Perché non posso fare un pezzo come Bruce Springsteen? Io ci voglio provare! Voglio provare a fare qualcosa che realmente mi avvicina al mio idolo. Di fondo questo è il senso dietro al testo: puntare alto.
È una cosa molto FASK, in effetti. Questo disco, come il precedente, ha la produzione di Matteo Cantaluppi. All’epoca una parte dei fan storici visse la cosa come una sorta di tradimento. Invece ora non sembra più così strano questo sound, quindi era la strada giusta. C’è stato questo ragionamento dietro la conferma di Cantaluppi? Come vi siete trovati, adesso, a lavorare con lui una seconda volta, non più come una novità?
Non abbiamo fatto nessun tipo di ragionamento di questo tipo. Ci siamo trovati bene con questa persona, l’abbiamo conosciuto e quindi lavorare al secondo disco è stato più facile. Siamo tornati a lavorare insieme perché noi siamo stati benissimo: abbiamo scoperto un mondo di suoni e un percorso professionale che mai ci saremmo aspettati. Cantaluppi aveva fatto cose differenti da noi e questo ci ha insegnato che le idee e i preconcetti non contano un cazzo. Conta la musica. Conta la conoscenza e la sapienza musicale, la professionalità. La musica è un lavoro, non puoi basarti sulle sensazioni. Questo lo fa qualcuno che non è un musicista, che non vuole fare la musica come mestiere, che non dà alla musica la giusta importanza. Per noi la musica è la nostra intera vita, quindi quello che vogliamo fare è collaborare con gente che spacca tutto. Matteo è, come noi, uno che ha buttato la sua vita nella musica. Questo è importante, è una persona che investe in musica come facciamo noi.
Se questa è la seconda con Cantaluppi, è la prima che avete delle vere e proprie guest star nel disco. La presenza di Willie Peyote (in “Cosa ci direbbe”) è qualcosa di inedito per voi. È una strada che percorrerete, almeno l’idea di avvicinarvi a territori così diversi da quelli tradizionali, come il rap?
Non ti so dire. Io mi immagino sempre che i featuring nascano con la formula “io + te = risultatone”, in realtà con Willie abbiamo fatto un pezzo insieme perché ci vogliamo bene, ci stimiamo musicalmente e ci sentiamo come amici. Dalla musica è nata un’amicizia che portiamo avanti. Diciamo che non è proprio proprio il feat come viene inteso nel 2021, ma siamo proprio contenti. Secondo me il pezzo con Willie è più figo di come lo avevamo pensato da soli. Questo è l’importante, la musica è più importante di chi la canta e la suona. Il testo assume significati molto più alti della band o del cantante stesso. Lui ha una scrittura molto più concreta, reale, diretta di noi. Con quel pezzo lui si è liberato di altri suoi pensieri e noi ci siamo liberati dei nostri, ci siamo confrontati, abbiamo fatto un sacco di chiacchiere e abbiamo stretto ancora di più i rapporti. Questo featuring per noi è stato un bel momento musicale. Ora, se si muovesse qualcosa di simile su questo slancio, io ci starei. Però questa band è un po’ chiusa in se stessa, ha bisogno, nel caso in cui si apra, di qualcuno che realmente sostenga una conversazione e un rapporto di vicinanza.
“È già domani” già fa capire un contesto temporale, ed è stato definito spesso e volentieri come “il disco della maturità”. Cosa significa per te “il disco della maturità”?
Mah, domandone. So che non sono più quello di quando avevo vent’anni perché ce ne sono tredici in più, non ho più quella forma di pensiero, sono più concreto in alcune cose e molto più onirico in altre; quindi, “il disco della maturità” è proprio qualcosa che deve dire qualcun altro, non chi ci è dentro. Io sono contento del percorso personale che abbiamo fatto, come persone, esseri umani. Quindi lascio ai posteri l’ardua sentenza.
Si può essere punk dopo i trent’anni?
Penso di sì. Solo che io lo sono un po’ meno. Non per i trent’anni, c’è gente che rimane hardcore fino ai novanta, io semplicemente una parte di quella rabbia l’ho risolta tra gioie e dolori della mia vita attuale. In base a tutto questo non mi sento più di dire che quello sia l’unico aspetto.
Possiamo chiudere dicendo che il domani fa meno paura, adesso?
Bah, no. Non credo sia questa la chiusura reale, se devo dire la verità. Però ci proverò. Se fosse l’esortazione di un amico direi: «OK, ci provo, grazie Ric!».