I Fanoya, duo indie pop formato da Giacinto Brienza (chitarra e voce) e Leone Tiso (piano e synth), hanno pubblicato a ottobre il loro nuovo singolo Fette biscottate, prodotto da Ventidieci e distribuito da Artist First, con la produzione artistica di Fabio Rizzo e Donato Di Trapani (Indigo Studio). Li abbiamo intervistati per parlare del brano e del loro progetto artistico.
Ciao Fanoya! Intanto complimenti per i vostri brani e per il nuovo singolo Fette biscottate. Seppure molto pop, ha una ricercatezza e una cura nel sound davvero interessante. Cosa vi stimola di più nella ricerca di suoni e sonorità, quando scrivete una canzone?
Grazie mille, siamo contenti che vi piaccia il nostro lavoro, cerchiamo sempre di alzare l’asticella e di migliorarci sempre di più lavorando in modo quasi ossessivo su ogni singolo pezzo. Abbiamo registrato Fette biscottate dopo una prima fase di pre produzione, con un team di musicisti di tutto rispetto: ognuno ha portato un po’ della sua creatività. Hanno suonato: alla batteria Roberto Calabrese (La Rappresentate di Lista), ai synth Donato Di Trapani (Paolo Nutini), alla chitarra Fabio Rizzo (Eugenio in Via di Gioia, Dimartino) e al basso Carmelo Drago (Niccolò Carnesi).
Gli anni ’80 sono tornati in questi anni, con un recupero di suoni, colori e forse di una certa leggerezza nel vivere la vita. Come e cosa vi hanno lasciato gli anni ’80?
Ci sono epoche che restano indelebili nel cuore di chi le ha vissute e anche di chi non le ha vissute ma come noi ne è rimasto affascinato. Mai come in questo momento storico di incertezza e precarietà c’è bisogno di colori, suoni e della spensieratezza di quegli anni, un filtro fluorescente con cui osservare il presente per restare leggeri.
Fette biscottate racconta di una Milano frenetica fatta di lavoro e alienazione. Come vedete cambiata la città oggi, e come starebbe Anna in questa situazione di lockdown?
Sicuramente questa pandemia ci ha fatto capire molte cose, soprattutto che la vita delle grandi città va completamente ripensata. Si ha sempre meno tempo per i rapporti umani e per sé stessi e spesso si finisce come la protagonista della canzone che vive sullo sfondo di una Milano fatta di lavoro e centro commerciali, dove non esiste fuga dalla prigione che lei stessa si è creata.
E voi come avete vissuto questo 2020 di incertezze? È stato uno stimolo a reagire o un blocco per la vostra musica?
I vari lockdown sono stati durissimi economicamente e mentalmente per tutti e a rimetterci siamo sempre noi artisti emergenti e indipendenti. Per scrivere, registrare e missare un disco servono almeno due anni di lavoro e se non puoi recuperali con i live è davvero un bel casino.
Il vostro primo album Generazione sushi è del 2019. Come vivete il trend attuale che punta molto di più sui singoli che sul formato album? Proseguirete anche voi nella pubblicazione di brani scollegati o c’è un full lenght in arrivo?
Preferiamo di gran lunga il formato album; è molto più romantico, per noi è necessario prenderci del tempo tra un disco e l’altro per capire in quale direzione andare. Inoltre, siamo in disaccordo e d’accordo con ciò che dice il CEO di Spotify, Daniel Ek, secondo cui pubblicare un album ogni tre anni porta più danni che benefici per il proprio pubblico. Ad oggi la piattaforma non ha un modello di business per gli artisti indipendenti e le royalties sono più che insufficienti.