– di Martina Rossato –
Valentina Falcone, artisticamente nota solo con il cognome, Falcone, è un’interessante cantautrice proveniente dai dintorni di Varese. Scrive fin dall’infanzia poesie e testi, che inizia a musicare in adolescenza. Dopo un percorso artistico come “Valentina Falcone” inizia una nuova fase della sua carriera come “Falcone”, segnata dalla pubblicazione del singolo Porte di silenzio, disponibile in una doppia versione su Spotify e sulle altre piattaforme – di cui abbiamo pubblicato una recensione.
Falcone è una cantautrice consapevole, che si muove tra una scrittura autorale e una vena sperimentale molto pronunciata, ammantata da un’estetica oscura e misteriosa.
Abbiamo intervistato l’artista per sapere di più su di lei e sul suo progetto musicale: ecco che cosa ci ha raccontato.
Il tuo stile di scrittura è molto introspettivo, mentre al giorno d’oggi la musica tende ad essere sempre più veloce e l’impressione è che ci si muova di singolo in singolo alla velocità della luce. Come vivi la musica di adesso? Pensi sia cambiato qualcosa rispetto a qualche anno fa?
Bella domanda. Io resto del pensiero che vomitare musica solo per raccattare consenso e visibilità sia davvero poco edificante per l’artista, peggio ancora se devo “crearmi” un personaggio, ho sentito anche parlare in questi termini… Assurdo… Vedi i casi recenti: questi ragazzi giovani che hanno ottenuto successo all’improvviso e si ritrovano in un mega loop infinito, non capendo più chi sono né quale direzione prendere, perché fagocitati da un sistema frenetico, impulsivo, dove non conta quello che sei ma i numeri che fai. Non si fa più musica con il piacere di farlo. O meglio, per chi punta all’esposizione, senza curare le proprie radici musicali, i propri gusti personali, la propria identità artistica, per me ha già perso in partenza. Essere artisti è capire prima se stessi, correndo il rischio di non arrivare subito ma di aspettare anche anni. Parlo per esperienza personale e ne sono fiera: mi sarei persa molta consapevolezza. E il gusto di poter scegliere quale artista essere è quella sana rincorsa alla sensazione infinita di non arrivare mai, che in realtà è lo stimolo per spronarsi e costantemente migliorarsi.
Hai esplorato moltissimi generi per arrivare a una sempre maggiore consapevolezza di te stessa e del mondo che ti circonda. C’è qualcosa che un po’ rimpiangi nella tua carriera in ambito musicale?
Come accennavo prima, il percorso di un artista comporta anche il mettersi in discussione spesso e volentieri si torna punto e a capo, all’apertura di un nuovo progetto ci si ricostruisce facendo tesoro di quanto assimilato, si torna sempre piccolini perché la presunzione di avere fatto “l’opera d’arte” è sempre dietro l’angolo: «Il nuovo pezzo è una bomba», «Mamma mia, che tormentone»… Ecco, frasi del genere sono lontanissime dal mio concetto. Le domande da farsi sono: «Il brano mi provoca emozione?», «Lo sento tanto da potermi esibire liberando tutta me stessa?», «Ha l’intensità che volevo?». Si vive anche di ripianti, certo: il non poter fare musica come primo lavoro perché non ci si adegua al mercato è letteralmente frustrante. Ma, di contro, quanto mi sarei persa? E sarei stata in grado davvero di affrontare tutto? Come in tutte le situazioni restano i pro e i contro…
Al contrario, c’è qualcosa che vorresti tornasse come prima (ad esempio la spontaneità che si ha quando si scrivono i primissimi pezzi)?
Ecco, questo è uno degli aspetti positivi riguardanti la domanda di prima: la verità di un brano. Senti la differenza che c’è tra mettere in esposizione un pezzo “artefatto” e un pezzo “di cuore”? L’ingenuità è pura forza, perché non segue gli schemi, non si adatta. Fantastico. Fare un brano senza copiare nulla e ritrovarsi identificati – come nel caso di Porte di silenzio – ad accenni pop di fine anni Novanta e inizio anni Duemila, ventiquattro anni “lontana” dal presente… Non pensi che sia fantastico?
Ti sei mai sentita un po’ persa in tutto questo sperimentare? C’è stato un momento in cui hai perso di vista te stessa?
Perdersi è fondamentale. Devi buttarti letteralmente nel pozzo, sentire il vuoto prima di immergenti in quelle acque… Se in un brano non ti ci perdi tu, come puoi sperare che altre persone lo facciano? Sei protagonista di questo viaggio e il pubblico deve scegliere se viaggiare insieme a te o meno, se accettare questo compromesso difficile da assimilare. Ma so che c’è gente coraggiosa!
Il tuo brano Porte di silenzio è molto vicino alle sonorità del cantautorato, ma non manca quella nota dark che ti ha sempre caratterizzata. Da dove nasce la fascinazione per quel mondo?
Mi è sempre piaciuta l’associazione cinematografica e visiva alla musica. Sono una cantautrice visionaria, mi piace l’immaginazione, vedo ogni mio brano come colonna sonora di un piccolo film, di una storia che possa raccontare, che possa dare un messaggio un messaggio. Il dark è solo la palette con cui scelgo di colorare e ambientare il tutto, la mia piccola firma in basso a destra.
La produzione e l’arrangiamento sono stati curati insieme a La Costellazione del Cigno. Avevate già lavorato insieme? Come hai trovato questo progetto?
Con Giuseppe Cigna abbiamo già avuto modo di collaborare attraverso altre tracce e mi sto trovando veramente bene. Ha studiato tanto e oltre ad avere gusto musicale è anche molto paziente. Lavorare con una come me, che impazzisce e di colpo sperimenta cose lontanissime dal progetto precedente, non è facile. Non è da tutti! E con lui ho la garanzia di portare a casa un buon lavoro, che mi soddisfa artisticamente.
Vieni dalla provincia di Varese (come me!), che purtroppo non è il posto migliore dove far crescere la propria musica. Qual è l’ambiente musicale a cui sei abituata? Pensando in particolare ai live, qual è la città dove hai suonato di più e vissuto di più l’ambiente musicale?
In realtà ho sempre fatto musica nelle mie stanze per poi catapultarmi direttamente ai concorsi, non suono in una cover band (non piacendomi le cover) e questi anni li sto impiegando a crearmi un mio piccolo repertorio. Avendo avuto anche molti stop e pause, legati alla famiglia e alla vita personale, sono molto indietro rispetto a chi si esibisce live nei locali. Ma, vista e considerata l’esperienza (purtroppo) di molte band in Italia, non credo di essermi persa molto. Manca la cultura all’ascolto: o fai brani di altri e porti gente o sei tagliato fuori. È molto limitante, ma è la realtà di questo paese, per questo apprezzo i piccoli luoghi di ritrovo e le piccole realtà che premiano la musica originale e inedita.
Nel video del tuo ultimo brano grande protagonista (oltre alla musica) è la pioggia, che si affianca bene al testo triste e malinconico. Sei mai restata in silenzio ad ascoltare le gocce di pioggia sull’asfalto? È così che è nato il brano?
Porte di silenzio è stata scritta in un recente periodo, dove sono “caduta” in quello che la psicologia chiama sindrome da burnout. Ero scivolata in una condizione di estraniazione, dove mi sono ritrovata esausta, priva di energia e di significato, tanto da perdere la percezione di me stessa. Ero rinchiusa in una bolla e l’unica cosa che mi teneva ancorata al reale era il suono della pioggia. Pioveva sempre, in quel periodo, però era l’unico suono che mi calmava e che faceva defluire piano questa condizione. Da qui viene il significato della frase: «L’asfalto lacrima la pioggia», mentre nell’inciso canto «Lontana, continuo chilometri, distante». Quel “distante” rappresenta proprio la condizione in cui viaggiava la mia mente.
Se dovessi pensare ad un luogo (reale o mentale) legato alla tua musica, quale sarebbe?
Nella psicoterapia la prima cosa che mi è stata chiesta è di pensare a un “posto sicuro”. La mia musica è l’eterno viaggio che mi scollega dal reale, e mi permette di essere chi voglio e di rappresentarmi come desidero, ma anche di esorcizzare paure, di immedesimarmi anche nel dolore altrui e di osservare il mondo con altri occhi. È un luogo sicuramente mentale e indefinito.