– di Angelo Andrea Vegliante –
A novembre uscirà il suo disco per Cane Nero Dischi, “Butter”, anticipato da diversi singoli, tra cui anche “Schoolgirl”. Exwyfe ci prova, e lo fa anche dopo lo stretto lockdown che, già agli inizi della sua neonata carriera, ha minato il suo percorso artistico. Tra tutele della categoria e necessità di ripensare a un modo nuovo per promuovere la propria musica, abbiamo fatto quattro chiacchiere con l’artista per scoprire carattere e opinioni di Exwyfe.
Di cosa parla “Schoolgirl” e perché hai scelto questa canzone come una delle bandiere per il tuo prossimo disco?
Dei brani a cui ho lavorato è forse quello che preferisco. È nato dalla voglia di essere in un altro posto. Ricordo che ero a Central Park quando ho buttato giù una parte della melodia in una semplice memo vocale. Avevo voglia di restare lì per sempre a fissare i palazzi che sognavo fin da quando ero bambino. Era tutto più bello dal vivo. Tornato dal mio viaggio ho cercato quei palazzi anche qui. Me li sono costruiti dentro.
‘Schoolgirl’ parla di una ragazza che ha vissuto in una città immaginaria per tutta l’adolescenza. Una metropoli fatta di icone e cartoline dall’America, tenuta in piedi da social media e belle parole scambiate con il suo ragazzo. Tutta un’illusione che crescendo però si rivela come tale. La canzone a un certo punto, con l’arrivo della consapevolezza, si spezza e si trasforma in una crisi nervosa.
A novembre esce il tuo nuovo disco, “Butter”: cosa vuoi comunicare attraverso questo lavoro discografico? I brani hanno vita propria oppure sono legati da un fil rouge particolare?
Per quanto creda che ogni brano se la possa cavare bene anche da solo, sono sicuro che queste tracce abbiano un sapore diverso quando le si tiene assieme. Si percepisce il concetto di lavoro sonoro solo quando le si mette sotto un’unica cupola. Sembrano tutte diverse, ma fanno parte di un’unica esperienza.
Un disco è fatto di dinamiche, a volte anche opposte. Nel mio il filo conduttore è la ricerca di qualcosa, il tentativo di individuare una sonorità che, anche ricordando uno scenario straniero, non arriva mai a raggiungerlo, e trova un’espressione totalmente personale. Il tutto è tenuto assieme da questa malinconia affamata, irrequieta, mai soddisfatta.
Si parla di sesso, ma è freddo e lasciato un po’ alle spalle; si citano amici scappati altrove, e di come li si stia a guardare da lontano, con rassegnazione. L’amore e la rabbia sono palazzi su cui mi trovo a sbattere in continuazione, e anche se l’intenzione è la stessa, le botte prese fanno male in modo sempre diverso.
Quali feedback ti aspetti di ricevere da “Butter”?
Non ho una vera idea di cosa aspettarmi, sicuramente so che vorrei rimanere stupito. Vorrei arrivare a qualcuno. Mi piacerebbe che si ascoltasse la mia musica senza il pregiudizio del “Siamo in Italia, canta in italiano” senza le influenze delle mode o delle lobby. Ma questo è un discorso lungo e complesso.
Ho letto che sei a stretto contatto con i valori e le comunità LGBT: quanto la musica può giocare un ruolo significativo nel portare avanti determinate battaglie sociali?
La musica aggrega, sensibilizza, porta messaggi più o meno fruibili, li accompagna con dei contenuti. L’arte da sempre critica e contrasta i pregiudizi. Di certo non è un’arma nucleare contro l’ignoranza, ma crea un senso di unione e rafforza i valori e le persone che credono in essi.
Qualche tempo fa a Milano c’è stato un evento incredibile dei Bauli in Piazza. Tu ci sei stato? Se sì, hai avuto modo di partecipare all’iniziativa? Più in generale, che ne pensi dell’attenzione mediatica che si è creata sulla salvaguardia del lavoro artistico in tempi di pandemia?
Ho letto di questo evento ma non ho potuto prenderne parte. Mi sono appena affacciato al mondo della musica e fortunatamente ho un altro lavoro che mi sostiene. Trovo che sia stato molto forte vedere finalmente una coesione in rappresentanza di questo problema.
Mi sembra che sia ora di affrontare questo tipo di necessità, e mi stupisce che solo in seguito a un crollo devastante come quello che la pandemia ha causato, ci si ritrovi finalmente a discutere qualcosa di così fondamentale.
Mi piace pensare che una manifestazione come questa possa essere una svolta, la presa di coscienza di una classe che fino a poco prima lasciava scorrere dinamiche davvero troppo complesse e ben lontane da una vera soluzione. Ma ripeto sono nuovo in questo mondo.
Come si può far attecchire nella società il concetto secondo cui essere parte del mondo dello spettacolo, e quindi anche della musica, sia effettivamente un lavoro?
L’Italia per certi versi evolve in modo lento e disorganizzato, e questo lo sappiamo tutti. Non mi piace fare confronto con altri Paesi, ma esiste molta più apertura e maturità anche solo nel resto d’Europa, dove chi fa arte e musica viene sostenuto da sovvenzioni, e considerato, tutelato.
C’è un forte problema di rappresentanza per i musicisti e addetti ai lavori in Italia, legato a troppe forme contrattuali e a vuoti legislativi. In più, fino ad ora, gli stessi interessati hanno mantenuto una certa noncuranza riguardo all’esigenza di definire il concetto di musicista e artista come professione.
Fondamentalmente ognuno cerca sempre di pensare ai fatti suoi: grandi personalità della musica, discografici, proprietari di locali. Io spero che questo brutto momento sia un punto di partenza, che non ci si fermi al proprio, come si è sempre fatto, ma che si avanzino richieste per proteggere e sostenere tutte le parti del mercato dello spettacolo.
Durante questa pandemia, com’è cambiata la tua vita da artista? Sei riuscito in qualche modo a portare avanti la tua attività artistica?
Pensa che io ho fatto uscire il mio primo singolo cinque giorni prima del lockdown. Quale evoluzione peggiore si poteva affacciare? Non ho mai potuto portare la mia musica in un contesto live, e sappiamo tutti che questa è una parte importante della promozione. Non sono fan dei concerti in streaming, non mi piacciono, forse mi ci devo abituare, ma è qualcosa che ha solo un valore simbolico e non copre la funzione che un’esibizione dovrebbe avere.
Durante il lockdown mi sono sentito spesso impotente. È stato tutto così improvviso. Ho ripreso a scrivere e a disegnare, mi sono concentrato su un mondo più intimo, ho dato forma all’ansia e formulato una specie di catarsi tutta personale. Questa può essere vista come un’evoluzione, ma non so se posso definirla una soluzione.
Solitamente l’ultima domanda coincide con la richiesta di conoscere date o eventi per presentare le proprie opere. Ora è leggermente cambiata: andrai in giro a presentare “Butter” rispettando le norme anti-Covid oppure ritieni che non ci sia possibilità?
Mentre rispondo a queste domande ci stiamo affacciando alle ennesime restrizioni anti-Covid. Non si può fare molto per ora, ma è questione di tempo. Voglio essere sorprendentemente ottimista nel dire che quello che ho fatto rimarrà in attesa del momento giusto. Non mi resta che sperare venga presto questo tempo.
L’intervista è stata realizzata precedentemente alle ultime disposizioni emanate dal DPCM del 24 ottobre 2020.