– di Assunta Urbano –
In un soleggiato giovedì mattina, ho intervistato Carlo Corbellini, mente e anima dei Post Nebbia, uno dei progetti più innovativi del panorama musicale italiano degli ultimi anni. Ci siamo incontrati a Termini, al Mercato Centrale, tra la frenesia di chi sta per partire e chi prende un caffè prima di entrare in ufficio.
Esattamente un anno fa, avevamo sentito telefonicamente l’artista per parlare del singolo “Veneto d’estate”, in collaborazione con Nico LaOnda.
Il gruppo di Padova si è fatto conoscere dal pubblico con l’esordio autoprodotto nel maggio del 2018 di “Prima Stagione”. Gli ascoltatori hanno seguito le esplorazioni sonore anche nel secondo capitolo, “Canale Paesaggi”, nell’ottobre del 2020, pubblicato per Dischi Sotterranei e La Tempesta Dischi.
Consacratisi allo scenario psych rock nostrano, il 2022 segna un nuovo inizio sonoro per la one man band. Esce oggi, 20 maggio, “Entropia Padrepio”. Un’avventura in cui si oscilla continuamente tra il divino e il terreno e dove la crisi spirituale regna sovrana. La chiesa diventa punto narrativo di riferimento per scovare nell’animo umano.
Ci siamo fatti raccontare le dieci canzoni, non semplici da assorbire e integrare, dal leader dei Post Nebbia in prima persona. Questa volta ci siamo incontrati dal vivo e nel cuore della Capitale per accendere i riflettori sul suo terzo lavoro.
“Entropia Padrepio” è il terzo disco targato Post Nebbia, probabilmente il più complesso dei tre. Ci racconti di questo viaggio introspettivo?
Sì, oltre che più complicato, lo sento anche più maturo. Credo sia un disco che si prende la responsabilità di parlare di argomenti universali, difficili da declinare. Li affronta tramite la religione, l’iconografia e gli immaginari di provincia. È un concept album che parla della distanza tra un singolo individuo e il resto dell’universo. L’essere definiti dalle proprie limitazioni e il soffrire di non essere un tutt’uno con ciò che ci circonda.
Hai paura di essere frainteso o travisato?
Ho timore di questa cosa. Fino ad ora, mi sembra che chi l’ha già ascoltato l’abbia compreso nel modo giusto. Sono rassicurato, vediamo cosa succede da oggi in poi. La mia preoccupazione è che alcune cose potrebbero essere prese alla lettera. È un disco che parla di un argomento spinoso. Per quanto mi riguarda, non penso di averlo affrontato con superiorità e mi sono confrontato con alcune visioni di vita diverse dalla mia.
Al centro dell’album, come vediamo dal titolo, c’è l’eterno conflitto tra divino e terreno, e il primo diventa quasi una parte fantascientifica. Che legame hai con la religione?
In realtà, non ho rapporti. I miei genitori sono agnostici e non mi hanno battezzato. Il legame c’è soprattutto se consideriamo la rilevanza a livello urbanistico, Padova e il Veneto sono aree molto cattoliche. Noi viviamo nel quartiere Arcella, gigante, che conta circa settantamila persone. Si dice spesso, però, che ci sono più chiese che cristiani. E questo diventa parte della vita delle persone. La prima formazione dei Post Nebbia è nata in parrocchia. A dodici anni, suonavamo tutti lì. È difficile distaccarsi da questo modo di pensare.
“Cuore semplice” è il primo singolo che ha preannunciato “Entropia Padrepio”. L’avete definita “una preghiera col distorsore al massimo”. Portando queste due parole nel panorama artistico, secondo te, è possibile nella musica conservare un “Cuore semplice” e riuscire allo stesso tempo a sopravvivere?
No! [ride, ndr] Questo lavoro offre tante esperienze, ma non credo sia facile da vivere con leggerezza. Cerco sempre di fare in modo che ciò che scrivo mi coinvolga in maniera personale. Poi, qualsiasi cosa tu faccia è difficile tu sia tranquillo, in generale.
L’album è stato interamente scritto e arrangiato da te e nella produzione artistica sei stato affiancato da Fight Pausa. Com’è stato collaborare con qualcuno in un lavoro così intimo?
Sono stato molto contento. Mentre il disco precedente l’avevo registrato seguendo il mio gusto, in questo caso c’è stata proprio un’urgenza espressiva. Lì, c’era un distacco con la mia persona. Riuscivo a divertirmi. Qui, ho fatto fatica a guardarlo da fuori. Volevo fare un passo avanti e registrarlo in studio. Ogni minima scelta fa il disco. Ho fatto in modo che i suoni avessero un altro aspetto. Abbiamo tenuto alcune imperfezioni. Un contrasto del genere, in un album con un piglio divino, dà uno strato in più.
Dal lato sonoro è il disco che si appresta a più sperimentazioni. Il sound psichedelico non viene abbandonato, ma mescolato al prog e anche all’art rock. Parliamo di questi suoni?
C’è tantissima roba dentro. Nel periodo in cui stavo lavorando a “Entropia Padrepio” sono andato in fissa con alcune band che ascoltavo già da prima, come gli Strokes, i Talking Heads, i Beatles. Però, ho iniziato ad avvicinarmi a queste realtà in modo diverso. Ho fatto un tuffo allucinante nella musica brasiliana. Non c’è stato nessun ragionamento dietro. Semplicemente mi ero stufato di scrivere altri pezzi come loop. Volevo realizzare qualcosa che avesse una struttura, uno svolgimento e che avesse una fine. In alcuni casi, sono riuscito a farlo in modo abbastanza fluido. In altri, è venuta fuori qualche canzone un po’ schizofrenica. Nella maggior parte, quasi tutte cambiano in modo repentino.
“Cristallo metallo” racconta l’essere umano che si sente completo solo se abbandona il singolare e si avvicina all’universale. Per quanto questo sia uno dei messaggi con cui molti di noi sono cresciuti, genitore del famoso e poco credibile “andrà tutto bene” pandemico, pensi sarà possibile? E nella musica?
Dopo aver riflettuto a fondo su questa cosa, ho capito che alla fine il senso della musica è cercare di non rimanere nella gabbia dell’individualità. Oggi, c’è un peso sull’individuo, sullo spingere ciò che hai e primeggiare. Dall’altro lato, per colpa anche del covid, c’è una mancanza di esperienze collettive vere. Ad esempio, ai concerti non è più come prima. È diventato difficile lasciarsi andare davvero.
In “Voce fuori campo” canti «Cerco qualcuno che mi porti per mano nel mondo». Chi è la persona che vorresti ti inoltrasse in questa esperienza?
Ho Michele Novak, che è il mio manager, e sostanzialmente lui lo fa già. Però, nella canzone non è riferito a nessuna persona precisa. Mi piace che sia generico e ognuno possa mettere il senso che vuole. In “Entropia Padrepio” mi sono divertito a giocare su questa ambiguità sentimentale e religiosa. Non le vedo come due cose distaccate. Mi interessa portare un conflitto e non una certezza, per avere la possibilità di sperimentare anche con i testi.
Sabato 21 maggio parte il vostro tour estivo e i Post Nebbia saranno in giro per l’Italia per i prossimi quattro mesi. Come saranno strutturati i live di “Entropia Padrepio”?
Abbiamo tre scalette diverse, da trenta, quarantacinque minuti e un’ora. Tutto cambia a seconda dell’evenienza. Abbiamo più suoni, ne vado particolarmente fiero. 99 % suonato, con pochissime sequenze. Parleremo pochissimo, suoneremo come dei trattori e avanti! [ride, ndr] Non guardiamo nessuno in faccia e diventiamo pazzi.
È insolito avere la possibilità di intervistare uno stesso artista a distanza di un solo anno. Proprio a maggio 2021 ci siamo salutati con la domanda «Se potessi trasportare i Post Nebbia in un’altra epoca, lo faresti oppure preferiresti restare qui?». Mi dicevi che terresti la band nel presente, hai cambiato idea negli ultimi dodici mesi?
Probabilmente mi sarebbe piaciuto riuscire a rifare le cose anche in altre circostanze. Fino a dieci anni fa, non era possibile fare musica nel modo in cui lo faccio io attualmente. Spesso parto con la produzione prima di avere il testo. Credo che prima non fosse minimamente possibile, o almeno non accessibile. È difficile astrarre, scindere il prodotto dalla modalità di produzione. È un dettaglio che segna la nostra musica. Oggi, sono aiutati tutti dal fatto che la musica è più accessibile. Non ci sono più barriere. Però è interessante. Chissà tra un altro anno cosa potrei dirti.
Ultima domanda: alla fine rimane davvero “Solo l’amore”?
Alla fine, secondo me, sì. È un po’ l’eleganza di tutta questa dinamica. C’è un pezzo di Chico Buarque, musicista brasiliano venuto in Italia negli anni Settanta per collaborare con Ennio Morricone. Tra l’altro le coriste sono Mia Martini e Loredana Bertè. Insomma, questo brano “Roda Viva”, come tutte le canzoni del genere, è gioioso a pelle, ma struggente nel testo. Al termine qualcosa rimane. Mi piace pensare che sia l’amore.