Di Chiara Bravo.
Foto di Adila Salah.
Fuori dal circuito noto dei club, dagli stadi e dalle arene, permane una bolla musicale Lazio-centrica che si costruisce attorno a precisi modelli lessicali, grammaticali e culturali di riferimento, una sorta di canzone romana che si rinnova coerente alla propria matrice. Sono voci autoriali di periferia contemporanea di una metropoli in espansione, dove si affaccia il ricordo mai vissuto della borgata che fu, quando i regazzini giocavano a pallone in strada e gli innamorati si dichiaravano a suon di serenate. Qui, tra mito e storia, tra Pasolini e Mannarino, tra “Sora Rosa” e Lucio Leoni, si colloca Emilio Stella, cantautore romanista, romanesco (in alcuni brani più che in altri) e romano, di quelli che portano con sé il senso del sobborgo di chi è nato a ridosso della Capitale.
Dopo il concerto del 26 luglio, il cantautore ritorna l’8 settembre sul palco di Parco Schuster in zona Ostiense, per presentare il nuovo disco dal titolo Suonato in uscita il 14 settembre per Goodfellas. Una location diversa per chi, come me, è abituato ai realese party di Roma Est. Soprattutto è diverso il pubblico. Entrare in questa bolla è come entrare in una grande famiglia: ci sono i genitori in presa bene, gli zii dalla Calabria, i cugini adolescenti con le fidanzate, i vicini di casa passati per caso a fare un saluto, i bambini che corrono e una schiera di cani. Un pubblico anagraficamente variegato che ha l’eccezionale peculiarità di essere assolutamente normale. Accoglie con calore l’entrata di Emilio Stella in t-shirt grigia e giacca scura, che resiste il tempo del primo brano, e la chitarra tappezzata di adesivi come un retaggio adolescenziale. È il classico ragazzo che tutti vorrebbero come amico, quello che fa ridere alle cene con la sua vena naturalmente comica e la battuta pronta come hanno i romani. Le danze si aprono con il singolo che ha anticipato l’album, “Attenti al cool”, un instant classic trascinante un po’ folk e un po’ rap che ironizza sulla vita da “social media manager presso me stesso” e consiglia, soprattutto si auto-consiglia, di non eccedere nell’ostinazione di stare sempre sul pezzo.
È l’inizio di uno show di quasi due ore, in cui Stella, coadiuvato da una band inesauribile, ripropone canzoni del primo disco autoprodotto, Panni e scale del 2011 (“Paura del diverso”, “La storia delle donne passate”) e i singoli usciti in questi anni, come la cristicchiana “A Testa Alta” e il tormentone reggae “Capocotta non è Kingston”, con una resa live che non ci fa rimpiangere troppo la lontana Giamaica, complice anche il divertente stacchetto di Francesco Scacco. Ma protagonista assoluto è Suonato, che Stella snocciola tutto, tranne la Grande Assente, la canzone dedicata a Francesco Totti, “Maledetto Tempo”, che da un anno circola in rete. Ospiti della serata, Alessandro Pieravanti del Muro del Canto e l’attore Ariele Vincenti. Pieravanti affronta nei suoi due brani che temi a lui molto cari: la torbida questione dei palazzinari e l’archetipico stato di coscienza che si crea al pranzo domenicale a casa di mamma. Vincenti, da parte sua, interpreta un sonetto sull’infanzia di borgata del poeta Er Pinto, duettando con la musica e la voce di Stella.
Momenti di energia balcanica e ritmi scanditi dalla fisarmonica si alternano a brani malinconici, agrodolci. Ma Stella non cede mai all’autocommiserazione generazionale. L’io dell’autore è, certo, un io scisso tra file di amori finiti e voglia di libertà senza sapere come, ma non è mai l’unico perno della narrazione. Ci sono la gattara che accudisce i gatti come dei figli, la rozza Marcella che ha pianto per Accattone e Mamma Roma ma non sa chi sia Pasolini, il muratore che sogna di fuggire finalmente, un giorno, dal cantiere. Ma poi basta un ragazzo del pubblico che si accende una sigaretta al contrario a far ridere improvvisamente il cantante, e la festa ricomincia, ritorna la fisarmonica e la danza. Perché la vita è una tarantella d’amore e piena di poesia anche nelle sigarette sbagliate. E viemme a di’ de no.