– di Martina Rossato –
Venerdì 4 febbraio 2022, ore 21. Dal mio posto a teatro aspetto, chiacchierando del più e del meno, che Angelo Branduardi compaia sul palco. Chi doveva venire al concerto con me è in quarantena e il suo posto è stato preso da mia zia. Pensandoci bene, ha senso che sia così: ho conosciuto Branduardi quando, seduta sul seggiolino davanti di un risciò a Riccione, proprio lei cantava “Alla fiera dell’Est” per intrattenere me e la mia cuginetta, esuberantissime bimbe di 8 e 6 anni.
Quando ho comprato i biglietti per questo concerto ero un’altra persona, la mia vita era diversa e non sapevo ancora che sarebbe arrivata la “peste bubbonica”. Ma ora sono finalmente seduta su questa poltroncina, il Teatro di Varese è pieno e, prima che me ne possa accorgere, una inconfondibile chioma bianca e disordinata compare sul palco. Ero piena di aspettative per questa serata e mi è subito chiaro che non saranno deluse.
Prima di cominciare a suonare, Branduardi si avvicina al microfono e ci trascina subito nel suo mondo tramite parole leggere e scherzose. È così che ci racconta che la prima parte del concerto sarà dedicata a “Il cammino dell’anima”, il suo ultimo disco. I brani in esso contenuti sono la messa in musica dei testi di Ildegarda di Bingen, monaca benedettina vissuta nell’XI secolo – spiega. Branduardi l’ha incontrata un po’ per caso, mentre era alla ricerca di musica scritta da una donna del passato. Pur non essendo stata una musicista, tra le altre cose era una grandissima poetessa, e “il Brandu” ce la vuole far conoscere tramite le note del suo violino.
Avevo sentito il disco quando è uscito nel 2019, ma ammetto che non ero stata in grado di coglierne appieno la profondità. “Il cammino dell’anima” contiene dei brani meno godibili rispetto al Branduardi che conoscono tutti, quello de “La pulce d’acqua” o di “Cogli la prima mela”, questo è chiaro. Il suo ascolto necessita senza dubbio una disposizione d’animo diversa ed è meno scontato riuscire ad apprezzarlo. Tuttavia, essere a teatro e sentirlo suonare dal vivo mi fa provare una connessione quasi universale, che da casa non avevo colto.
Nel teatro si crea un’atmosfera particolare, l’attenzione di tutti è focalizzata sul palco, che in cambio emana un’energia fortissima. Dal lì arrivano brani calmi e tranquilli, che si alternano a momenti invece vivaci e molto rock. Il mio pensiero, a mente lucida, è che un disco non potrà mai rendere tutte le sfumature – e, perché no, anche le imprecisioni – del live: stare sotto a un palco significa condividere un’esperienza, vuol dire sentire una connessione profonda con chi ci sta a fianco, anche quando è un perfetto sconosciuto. È molto bello poter condividere queste sensazioni e avere la consapevolezza che l’artista sta respirando la nostra stessa atmosfera.
Nella seconda parte del concerto, Branduardi ha suonato brani tratti da “L’infinitamente piccolo”, il suo disco dedicato alla messa in musica degli scritti di Francesco D’Assisi. Con la sua vena ironica, racconta di quando i frati gli bussarono alla porta per chiedergli di musicare i testi del Santo. Perplesso e consapevole di essere un peccatore, ricorda di aver risposto che non sarebbe stato la persona più indicata a svolgere quel delicato compito. D’altronde, si sa, gli artisti sono un po’ tutti dei peccatori: la loro abilità sta nel vedere oltre, e per farlo devono anche trasgredire. I frati, più convinti che mai, gli avevano risposto che infatti Dio bussa sempre alla porta dei peggiori.
In questa atmosfera di ilarità, comincia a suonare quei brani, frutto del suo attento lavoro di filologia e che risultano sempre spiritualmente profondi, anche senza intenti fideistici. Branduardi è quel tipo di persona che ci fa capire quanto la musica non siano solo note, solfeggio e precisione. La musica è prima di tutto scoperta e passione. Lui stesso si emoziona ancora a portare la sua musica sul palco, in particolare quando arriva il momento de “Il sultano di Babilonia”, che – ci tiene a ricordare – nella versione in studio è cantato con Franco Battiato.
Il suono della sua voce e del suo violino non stancano mai, sono capaci di creare meraviglia in chi lo ascolta e questo lo rende un artista sempre attuale. Riempire il teatro vuol dire emozionare: il pubblico ha voglia di lasciarsi coinvolgere, di sentire che la propria anima è viva.
Forse la più grande capacità di Branduardi è quella di farci provare sempre quel senso di stupore tipico dei bambini. Come un menestrello, ci racconta le storie e ci rende curiosi di saperne di più. Anche la terza parte del concerto, dedicata al “rock gotico branduardiano”, come l’ha definito lui, quindi ai suoi brani più tipici e conosciuti, è una continua scoperta. Come quando racconta la storia del capitano Franklin, la cui nave è affondata nell’Oceano Pacifico nel 1847. Branduardi parla al pubblico con la stessa spontaneità con cui parlerebbe davanti ad un tè caldo, ci fa riscoprire la bellezza di conoscere, esplorare. Alcuni dei brani che suona hanno accompagnato la mia infanzia, altri sono inediti. Hanno tutti in comune lo stesso fascino.
Un concerto di Branduardi non è soltanto bella musica, è un modo per sentirsi bene, fare esperienza di qualcosa che ci fa capire quanto possiamo arrivare ad essere vicini a noi stessi e alle nostre radici.
Mi hanno chiesto che senso abbia andare ad un concerto di Branduardi ancora nel 2022. Non sono sicura di saper rispondere a una domanda tanto personale, ma posso dire che nessun altro artista ci farà sentire vivi e partecipi della sua musica allo stesso modo.
Ecco perché il suo rock medievaleggiante, unito alla sua brillante presenza scenica, ci fanno sentire a casa.