– di Martina Rossato
foto di Francesca Infante –
Non è sempre facile trovare un equilibrio tra ciò che vorremmo e la realtà dei fatti. A volte, ascoltare e condividere l’esperienza di questa ricerca con qualcuno può essere di aiuto. Lacrime di sangue è il nuovo EP di Eakos, progetto artistico di Davide Pennacchia, ed è un viaggio introspettivo verso risposte a domande esistenziali che tutti ci poniamo. In sole cinque tracce, l’EP è una presa di posizione in una società che ci vuole sempre più distaccati dalle cose realmente importanti della vita, come la ricerca di un equilibrio interiore.
Disponibile dal 28 marzo per Noize Hills Records e distribuito da The Orchard, l’EP è frutto della collaborazione di Eakos con i produttori RudeBobo e The ego.
Eakos però non è solo musica, ma coinvolge altri aspetti artistici, in primis la fotografia. In esclusiva per questa intervista, le foto scattate in analogico da Francesca Infante.
Musica, fotografia, videogiochi, introspezione: Eakos è un progetto sfaccettato, e per questo mi sono lasciata coinvolgere in un’interessante conversazione con Davide.
Il tuo nome d’arte suona un po’ greco, ti sei ispirato a qualche mito?
Esatto! Suona greco, quindi “funziona”. È una storpiatura del nome greco di Eaco, un semidio della mitologia, uno di quei personaggi purtroppo passati in secondo piano. Attorno a lui c’è una lore assurda e per questo mi intrigava moltissimo la sua storia. In vita era considerato come un uomo profondamente giusto e dalla parte del popolo, tanto che quando è morto lo hanno affidato alle porte dell’Ade per giudicare le anime di passaggio.
Può sembrare esagerato, ma vorrei sempre portare concetti che stanno dalla parte delle persone e in cui chi mi ascolta si possa immedesimare. Non c’è solo entertainment, in quello che faccio, c’è sempre una parte più seria, che riguarda problemi che ognuno di noi può trovarsi a dover affrontare. Quindi, alla lunga, sento un collegamento con Eaco.
Come hai incontrato questo personaggio? Sei appassionato di mitologia?
In realtà no, però mi ha sempre affascinato. Sono un appassionato di videogame, ho sempre apprezzato i giochi un po’ mistici, tipo God of War, che è ambientato nel contesto della mitologia greca. Più in generale, mi intrigano le storie romanzate o mezze inventate. Era naturalissimo che scegliessi un nome del genere.
Il tuo EP è uscito il 28 marzo. Dico “tuo”, ma sembra più un lavoro di squadra.
È proprio così! Prima ancora di lavorare a team completo, ho lavorato con Roberto, in arte RudeBobo. È stato lui a produrre l’EP insieme a The ego. Bobo è di Alessandria, mi sposto spesso per andare da lui sui colli del Monferrato, nelle Langhe piemontesi. È un posto bellissimo dove rilassarsi e fare musica.
Lacrime di sangue è un progetto nato l’anno scorso. Abbiamo registrato e completato brevemente questo EP, perché alla fine sono solo cinque brani. Piccola anticipazione: abbiamo dei pezzi pronti tenuti da parte e che usciranno come singoli. È da capire in che forma pubblicarli, se da soli o in una sorta di repack di questo EP.
Cosa mi racconti della tua musica?
Il mio approccio musicale è sempre molto cantato, più che rappato. Fa parte di quella scuola R&B in cui ci sono note lunghe, concetti introspettivi, prime tra tutti le relazioni interpersonali. I suoni invece vengono dal mio background di ascolti, quindi dalla musica elettronica. Nei miei pezzi ci sono tanti synth e suoni elettronici che sembrano casuali, invece hanno un senso logico, e questo lato più zarro si sposa con quello più gentile.
La title track ad esempio esce di brutto dalla mia zona di comfort perché è molto happy dal punto di vista sonoro ma che riporta al mondo synthwave anni Ottanta. Ci sono artisti che fanno robe del genere in America, una di questi è Biig Piig, lei fa delle cose veramente fichissime. Elettronica e R&B, questi sono i due cardini del mio progetto.
Parlavi di influenze musicali, nel tuo comunicato stampa c’è scritto che sei nato «sotto il segno dei Pesci». È voluta la citazione a Venditti?
Non è voluta e non ascolto troppo Venditti, anche se lo reputo uno dei più grandi cantautori della storia musicale italiana. Il segno dei Pesci è un collegamento che faccio sempre per il mondo esoterico/mistico che c’è dietro ai miei brani. Del segno dei Pesci si dice che siano persone con un particolare estro artistico – anche se è vero fino a un certo punto, e poi sono solo le solite cose che si dicono per fare chiacchiere da bar – però sì, le persone dei Pesci mi sembrano un po’ mistiche, forse vedono un disegno più grande nelle cose e nell’arte.
In generale, ti ispiri a qualcuno nel panorama italiano?
Ce ne sono tanti. Non posso dire di non ascoltare musica italiana: penso che ci siano tanti artisti che fanno bella roba e spesso non sono nemmeno troppo compresi, uno tra tutti è Frah Quintale. Poi si tende a dare etichette come “pop” o “indie”, ma in realtà più un artista è eclettico, meglio è. Mi piace molto anche il primissimo Ernia, la sua musica ha una matrice più rap, ma ha sempre trattato di cose profonde e filosofiche.
Non sto ad elencarti tutto il panorama pop italiano ma sono tanti gli artisti che sono riusciti ad arrivare “in alto” facendo cose molto valide.
A proposito di riflessioni sulla vita: anche tu ne fai parecchie. Chiuso nel cubo, ad esempio, parla del tempo che passa e che ti scorre addosso. Questo concetto c’era già in Giorni e mesi.
È vero, hanno due accezioni diverse, però. Giorni e mesi si riferiva a un momento di chiusura effettiva, che era quella del lockdown. Chiuso nel cubo è la metafora dell’essere chiusi all’interno di una routine che non cambia e non finisce mai. È l’essere chiusi in un loop che vorresti cambiare ma da cui non riesci a scappare.
Per qualche motivazione interna o che viene da fuori?
Un po’ entrambe le cose, direi. Nella vita ognuno di noi ha dei sogni e delle cose che vorrebbe fare. Spesso ci si trova a prendere il piano B perché ancora non si ha il modo di permettersi di occuparsi solo dell’altra cosa. Nel mio caso è palese che non riesco ancora a mantenermi con la musica, ma è l’obiettivo principale della mia routine. Finché non si riesce a fare questa cosa, bisogna consumare energie mentali per altri lavori. È un problema che hanno moltissime persone che conosco, artisti e non. È un po’ questo il significato del cubo.
Pensi di aver trovato un equilibrio?
Non ancora [ride, nda]. Per adesso sì, è ovvio. La passione musicale è qualcosa che muove da dentro, e mi piacerebbe renderla l’unica cosa che faccio durante la giornata. Dall’altro lato però viviamo in un’epoca in cui questo è molto difficile anche ad alti livelli, perché ogni artista deve anche essere imprenditore di se stesso. Ognuno è costretto a trovare un equilibrio, ma non è costante, continua a cambiare, è tutto sempre in continua evoluzione. Adesso parliamo di musica, ma questo discorso si può applicare a qualsiasi individuo sulla faccia della Terra.
Sempre in Chiuso nel cubo canti: «Mai più senza indifferenza». In che senso?
Ci sono delle cose che nella vita devi bypassare per evitare di frustrarti eccessivamente. Io, come tanti altri esseri umani, a volte sono indifferente per difesa, per non essere scalfito in qualche modo. In altri momenti invece l’indifferenza va eliminata.
«Mai più» però è piuttosto definitivo.
Sì, è definitivo; per fare questa cosa al cento per cento è necessario essere indifferente nei confronti di tante questioni. Dall’altro lato, in ambito artistico, oggi alle persone interessa non solo la musica ma anche il vedere com’è una persona nella vita di tutti i giorni. La comunicazione non può essere esclusivamente musicale, c’è bisogno di altri tipi di contenuto. Non posso essere indifferente a questo.
Non è solo questo il ragionamento, ma è un esempio di qualcosa con cui bisogna fare i conti.
Ho visto che hai fatto un video in cui spieghi il tuo EP, ci ho intravisto anche un rullino. Cosa ci faceva lì?
Io sono appassionatissimo di fotografia analogica. C’è una mia amica, Francesca, che ha scattato le foto per questo progetto. È bravissima, lavora per un negozio di fotografia di Milano che si chiama DagoPhoto, che ha anche una bella community! Vende, sviluppa rullini fotografici analogici.
Le foto analogiche sono troppo belle, catturano quell’estetica e quell’anima che la foto digitale non riuscirà mai a replicare neanche con mille color corrections. Per me la macchina analogica è tutto, ha quella pasta che si sposa bene anche con la mia musica e con quello che sto cercando di fare in questo periodo.
A livello visivo mi sembra ci sia un colore predominante nel tuo progetto, che è il rosso.
Proprio così! È una cosa venuta spontanea, un po’ collegandomi ai titoli delle canzoni. Ogni singolo che è uscito prima dell’EP aveva un colore predominante a sé: Faccio un giro è un colore più freddo, un blu notte con visual blu e azzurre che compaiono e scompaiono, Chiuso nel cubo è verde, per dare un’idea di speranza. Lacrime di sangue non poteva che essere di colore rosso.
Quindi questa cosa dei colori è importante per te?
È tutto importante, non solo la musica, anche l’estetica e i visual sono fondamentali. In più, tutto quello che vedi è collegato a un mondo che fa parte di una nicchia di videogame, che poi è esplosa, che è quella di Demon’s Souls. Quel gioco è fondamentale per me perché nei miei pezzi c’è sempre una riflessione, magari triste, ma c’è anche uno spiraglio di luce in fondo al tunnel.
L’idea è di intraprendere un percorso e migliorare, prima o poi: migliorerò la mia persona, il mio estro umano. La stessa cosa succede in questi videogiochi, in cui parti che sei molto scarso e nel tempo, sbagliando, impari a gestire il tuo personaggio finché non diventi fortissimo.
Ultima curiosità: sei veneto e vivi a Milano, ma hai viaggiato molto. Cosa ti è rimasto nel cuore?
Sono originario del Veneto e ho vissuto lì per vent’anni, poi mi sono trasferito a Bologna, dove ho provato a studiare. No, dai, non “ho provato”: l’ho finita, l’università! O meglio, la triennale. Però non era quello che desideravo e proseguire quel percorso non mi avrebbe portato da nessuna parte.
Ho trascorso sei mesi di volontariato in Repubblica Ceca, esperienza che mi ha fatto uscire molto dalla mia zona di comfort. Era un internship, sono partito per questo progetto e ogni settimana cambiavo host family. Puoi immaginare quante persone ho conosciuto in quel periodo! Sono venuto a contatto con mille realtà diverse e culture differenti. Quando vivi con tante persone ti rendi conto del potenziale che esiste fuori dal tuo cubo.
È cambiato il tuo approccio alla musica?
Assolutamente sì, un tempo preferivo fare musica da solo. Adesso mi piace fare musica in gruppo!