– di Naomi Roccamo
foto di Liliana Ricci –
Dopo la triste parentesi dell’estate scorsa, che mi vedeva seduta a Villa Bellini ad assistere per la prima volta a un loro concerto (in acustico) ho finalmente preso parte a un live dei Fast Animals and Slow Kids. Arrivo comunque tardi, lo so, il fandom veterano non fa che raccontare dei loro tempi d’oro, dei concerti di provincia in cui si saltava come canguri e COVID era una parola sconosciuta. Mi sento come chi scopre Fantasia 2000 a 30 anni ma mi accontento.
Villa Ada si prepara per le date finali della stagione, è il mio ennesimo concerto qui quest’estate e l’iter ormai è scontato. Le facce che ci abitano pure, ma è bello vivere in una bolla quando la bolla ha a che fare con la musica.
Aimone Romizi opta per un look decisamente coraggioso, fatto di pantaloni neri e camicia a maniche lunghe. Chic. Arriva lei, la frase che è l’inizio di tutto: «Salve a tutte e tutti noi siamo i Fast Animals and Slow Kids e veniamo da Perugia!»
La prima cosa che collego a un gruppo come il loro è l’umiltà; sarà che ho avuto modo di parlarci una volta, sarà che il mio istinto mi suggerisce questo ogni volta, ma li guardo e vedo dei musicisti ma soprattutto degli amici, delle persone che fanno del bene e inevitabilmente ne hanno ricevuto e ricevono molto in cambio. Certo è la musica il loro grande amore, ma c’è tanto altro spazio dedicato a cose altrettanto belle e si vede continuamente.
Nella “Vita Sperduta” arrivano sul palco dei poster, delle dediche, che Aimone dice di voler prendere e attaccare in camera. Qualcuno urla «Sei bellissimooo» e lui risponde «Ma se sono al quarto pezzo e già faccio schifo». Quando poi sul palco sale Ditonellapiaga, con la quale improvvisano una versione rock di “Chimica”, che commenta carinamente la scelta poco sportiva dell’outfit visti i 40 gradi, abbiamo la conferma di ciò che dice Aimone.
Ma non è importante. L’importante è ritornare a correre da uno spazio all’altro, saltare, incrociare la folla da cima a fondo, anche se i nuovi fan non sono quelli di 10 anni fa e il pogo è un’opzione. La regola dovrebbe essere “Chi non salta non venga al concerto dei Fask” ma non sembra proprio venir rispettata.
«Se almeno una volta vi è capitato di sbagliare, questa è per voi». “Dritto al cuore” insieme agli “Animali notturni” e alle altre di “È già domani” riprende quell’umanità che pervade la musica dei FASK, la recente è la versione più tranquilla della rabbia primordiale, quella che in origine guidava i loro brani avvelenati, schifosamente veri. E indubbiamente c’è meno spazio per questi negli ultimi live, ma vengono accolti calorosamente e con impazienza al loro arrivo. “Annabelle”, “Combattere per l’incertezza” custodiscono ancora la nostra parte più selvaggia.
Quando ad arrivare è “A cosa ci serve” siamo tutte e tutti grondanti di sudore:
A cosa ci serve?
Se non ci proviamo più
Il tempo che perdo è la morte
A cosa ci serve?
Se non crediamo più
Brucerò entro due anni lo giuro
A cosa ci serve, se non ci amiamo più?
Non vorrei esser mai nato
A cosa ci serve, se non ci sarai più?
Mi troverai marcio in un lago
Proprio quel lago diventa il Lago ad alta quota nell’ultima versione dei FASK, un posto da cui “prendere la bellezza e fissarla nella testa, perché la bellezza ci sfugge“.
Probabilmente loro questo non hanno mai smesso di farlo. Così come non hanno smesso di incendiare i palchi, di Suonare (la S è volutamente maiuscola) dal 2002 a questa parte, esattamente a metà fra la fatica e la passione.
«Mamma! Papà! Avete visto? Siamo facendo i musicisti! Nel 2022!»