– di Roberto Callipari –
Ci sono artisti che fanno della loro arte una necessità, e cercano di colmare questo bisogno in tutti i modi possibili.
Federico Dragogna, che di certo di musica ne ha già suonata e scritta molta nella sua carriera da produttore ma soprattutto da membro dei Ministri, è riuscito a soddisfare ancora una volta questa sua necessità, rilasciando il 5 maggio per Pioggia Rossa Dischi un disco che segna il suo esordio da solista.
L’album, intitolato “Dove Nascere” (che abbiamo recensito qui), è un viaggio che percorre i meandri della mente di Dragogna, che abbiamo incontrato per farcelo spiegare meglio e per discutere assieme tutte le questioni che la sua opera solleva.
Innanzitutto raccontaci da dove arriva “Dove Nascere”.
Se dovessi datare il giorno in cui ho deciso che avrei fatto uscire qualcosa col mio nome dovrei tornare indietro ai miei otto anni. Ho cominciato a mettere da parte il materiale che compone il disco cinque o sei anni fa. L’ho poi lavorato di notte, un po’ come un libro di Sottsass – “Scritto di notte”. La notte identifica quel momento della vita “altro”, in cui ci si può staccare e dedicare a qualcosa di diverso. Ho costruito così un’opera che, nella mia testardaggine, ero sicuro sarei riuscito a far uscire, anche se non è mai detto fino alla fine, e quindi lo lavoravo un po’ di nascosto dal resto.
Com’è fare un disco solista dopo l’esperienza coi Ministri e come si vive l’uscita di un disco solista con già una lunga carriera alle spalle?
È stata sicuramente una carriera lunga, ma tutto quello che ho fatto prima è un po’ sparito dalla percezione di me stesso. Il vantaggio che si ha in questi casi rispetto agli artisti emergenti è sapere che altre volte nella vita le tue canzoni hanno significato qualcosa per qualcuno. Questo è un buon punto di partenza, perché quando non c’è questa possibilità non sai cosa succederà davvero.
Ora sono nel mezzo dell’uscita, ed è bello perché in questo momento non rappresento nient’altro che me stesso. Non che non sia bello stare in una band – anzi questi progetti in una band di solito sono anche molto divertenti – ma è interessante poter scindere la musica dalla sua rappresentazione pop. Anche semplicemente il nome di una band ne dichiara l’estetica, mentre il mio nome è il semplicemente il mio nome anagrafico ed è l’unica parte del progetto che non ho scelto [ride, ndr], come nessuno può scegliere dove nascere.
Il pubblico di una band, quindi, ha determinate aspettative. Pensi che ci fossero delle aspettative riguardo “al disco di Federico Dragogna”?
La questione delle aspettative è qualcosa che alle volte, nella vita di un artista, può rassicurare, ma certe volte ti rende difficile usare altri linguaggi, che è anche comprensibile: penso ad esempio come, da ascoltatore, ad alcune band io chiedevo una certa cosa e mi rivolgevo a loro cercando quella cosa specifica.
Capisco bene quindi che ci sono tutta una serie di fan dei Ministri che magari sono anche infastiditi dall’uscita di un disco solista, come se rappresentasse uno scioglimento (cosa che non è), e che poi si sono ritrovati una cosa tutta diversa da quella che avevano mente, e va bene così.
Sono contento se i fan dei Ministri arrivano ad ascoltarmi da quel contesto, ma sono contento al tempo stesso di chi arriva ad ascoltarmi al di fuori da quella dinamica. È un disco che non inanella discorsi già fatti coi Ministri ma, anzi, usa linguaggi che con la band non erano possibili perché non le sarebbero stati propri, ricordando, e mi sembra evidente, che comunque non è un disco prodotto seguendo chissà che logiche commerciali.
Rispetto alle logiche commerciali o meno, infatti, sembra abbastanza chiaro, sin dal primo ascolto, che è un’opera che chiede di essere ascoltata.
Sì, perché è un disco molto denso, complesso, con tanti suoni e mondi diversi, quasi una raccolta di racconti. Così è come lo percepisco io, e infatti penso che sarebbe difficile leggere dei racconti cucinando. Poi la potenza della musica è che le canzoni sono canzoni, quindi fatte di contenuti ma anche melodiche. Ma resta in ogni caso un disco che, forse, con un po’ di concentrazione, funziona meglio.
Parlando della complessità del suono ti vogliamo fare una domanda che forse si farebbe a un emergente: quali sono stati i riferimenti sonori dell’album?
Dopo un po’ che fai musica i riferimenti sono sempre più inconsapevoli di quanto pensi, perché, nel mio caso, difficilmente scrivo sentendo questa o quella cosa o andando da chi di dovere dicendo “deve suonare come questo”. Mi rendo conto che però ci sono dischi o artisti di cui mi piace l’attitudine. Nel caso specifico mi sento di dirti allora gli ultimi lavori di Bon Iver o anche “Carrie & Lowell” di Sufjan Stevens (forse l’ultimo disco che mi ha davvero fulminato, quest’ultimo). Quindi c’è questa idea di cantautore che sa immaginare e raccontare mondi, ma non necessariamente solo con la sua chitarra, anche col suo computer, un modo moderno di fare musica che è calato nella contemporaneità e non è troppo ligio ad alcune regole.
Nel disco ci sono due brani, “Musica per areoporti” e “Cacciatori”, che vedono collaborazioni alla produzione (della quale sei protagonista, comunque) di Stabber ed Enrico Gabrielli. Com’è stato collaborare con questi due personaggi che, per il loro background, appaiono così lontani?
In realtà, al di là dei loro trascorsi che li hanno portati a fare cose così diverse, sono personaggi che hanno una visione super ampia della musica, anche se in modi differenti, quindi sono più vicini di quanto non credi. Andando nello specifico, Stabber è il suono, è un fisico che arriva alla musica dal suono, mentre “Erri” è un musicista puro che arriva alla musica dalla musica scritta e pensata, vista la sua formazione classica. Con quest’ultimo, che è un caro amico, abbiamo fatto delle parti di fiato e voce morriconiane direi, che sono davvero pazzesche, con una semplicità incredibile per lui.
Stabber invece, che non conoscevo, mi è stato presentato da un amico che era certo che dovessimo collaborare, così gli ho proposto il brano, da me già impostato, ma lui ha praticamente buttato tutto e tenuto solo la voce, ricostruendo l’arrangiamento in una maniera quasi claustrofobica, per quanto potente.