– di Giacomo Daneluzzo –
Anticipato dalla realizzazione di un sito ufficiale e dall’uscita di due singoli e videoclip (“Wild Boys, pt. 2” con Noyz Narcos e Gast e “Un’altra Brasca” con Carl Brave e Gemello), è recentemente uscito l’atteso disco del DJ e producer Loris Malaguti, in arte DJ Gengis, noto soprattutto per i suoi lavori al fianco di Noyz Narcos e molti altri. Il titolo è “Beat Coin” ed evidenzia chiaramente le due grandi passione dell’artista: la musica e le criptovalute, due ambiti che sembrano molto distanti ma che DJ Gengis ci ha dimostrato come, in realtà, non lo siano poi così tanto.
Ecco che cosa mi ha raccontato, in una telefonata estremamente intermittente avvenuta mentre viaggiava in treno.
Ciao DJ Gengis! È uscito da poco il tuo disco: come va?
Non c’è male! Ho ri-suonato ieri dopo circa due anni e non vedevo l’ora! Era un DJ set dove ho passato una serie di pezzi per far divertire le persone, poi sono intervenuti Ensi, Salmo e Noyz Narcos. La vibra era proprio figa!
Qual è il ragionamento dietro al titolo di “Beat Coin”? Cosa c’entra la criptovaluta con la tua musica? Io ho pensato al bitcoin come simbolo di qualcosa su cui investire, ma dimmi tu.
In parte l’hai azzeccata. Ma oltre a questo si tratta delle mie due più grandi passioni: la musica e le criptovalute. Oltre al concept del disco, minimale, essenziale, ci sono una serie di iniziative a cui sto lavorando parallelamente, tra cui una serie di NFT [non-fungible token: token crittografici unici non reciprocamente intercambiabili, in contrasto con le criptovalute, utilizzati in applicazioni che richiedono oggetti digitali unici come crypto art, oggetti da collezione digitali e giochi online, ndr] realizzati insieme ad alcuni tra i migliori “graffitari” e street artist d’Italia. Vorrei anche lavorare a una mia criptovaluta. È un discorso più ampio, che spazia tra il mondo della musica e quello della blockchain.
Quindi quello delle criptovalute è proprio un ambito a cui sei appassionato, più che un semplice interesse!
Sì! Guarda, vuoi sapere una cosa che fa ridere? Ora ne ho molte meno. Sei anni fa c’è stato un periodo in cui avevo sul mio portafoglio quaranta bitcoin, che oggi varrebbero circa due milioni di euro. Mi sono tenuto solo qualcosa.
Gli album dei producer negli ultimi anni stanno andando forte, mi vengono in mente dischi come “ZEROSEI” di Frenetik&Orang3, “Solo” e “Insieme” di Ceri, “OBE” di MACE e “BV3” di Slait, Low Kidd, tha Supreme e Young Miles. È una cosa che c’è da prima, certo, ma che ultimamente si sta intensificando. Come mai? Che cos’è cambiato in questi anni?
Io ho una mia visione di questa cosa. Per me questa è una naturale prosecuzione del vecchio concetto dei mixtape: su un singolo prodotto un sacco di artisti differenti, con varie sfaccettature dello stesso genere. Per me l’idea del producer album è l’evoluzione naturale del mixtape: prima si usavano le basi americane, oggi c’è la possibilità di seguire la produzione e di coinvolgere diversi artisti. Nella fattispecie il mio album sta riscuotendo una buona reazione da parte del pubblico: il punto è cucire con le produzioni il vestito adatto per ogni artista coinvolto. A livello economico anche le etichette in questi anni sono smepre più interessate a questo tipo di prodotti.
“Beat Coin” è un disco eterogeneo: ci sono sonorità molto diverse tra loro, quasi agli antipodi. Qual è, se c’è, il filo conduttore?
Il filo conduttore sono io, è il mio gusto, la human chain, la catena che collega più persone, più artisti. Sia tra me e i vari artisti sia tra gli artisti stessi: Franco126 e Neffa non si erano mai incontrati e il risultato è stato positivo. Nella mia carriera una cosa che mi è sempre riuscita bene è connettere le persone tra loro. Può essere anche questo un richiamo alla blockchain, è come il versante umano della tecnologia dei blocchi.
Rispetto al tuo genere di provenienza questo disco si colloca in un panorama molto più vicino a generi come il pop, l’r’n’b e il nuovo cantautorato italiano (itpop); ci sono vibrazioni di questo tipo, influenze di questi generi. Che passaggio c’è stato nel tuo percorso artistico?
Io sono sempre stato influenzato da diversi generi. In giovane età ho fatto un anno di scuola per tecnici e sono partito subito in tour con Alex Britti, con una formazione che era il Dream Team dei musicisti, mi sono fatto la gavetta e ho mantenuto sempre un’influenza e una collaborazione con il mondo del pop e degli strumenti “veri”. Anche con l’elettronica: ho avuto un side project dubstep. Molte influenze mi sono rimaste attaccate, anche dalla musica leggera e da quella più classica, nell’accezione di “suonata con gli strumenti”. Grazie a questo e all’aiuto di Matteo Pezzolet, bassista e grande amico che mi ha aiutato molto, ho realizzato produzioni in cui ho messo anche tanto di suonato, realizzando nelle basi i miei pensieri.
Io ho in mente DJ Gengis come DJ, produttore e scratcher di Noyz Narcos, anche se hai lavorato anche con altri artisti; un attore di tutto quel mondo che parte dal TruceKlan e che poi si sviluppa in altre direzioni. Tu hai visto, dagli anni Duemila a oggi, cambiare un sacco la scena rap, sia quella romana che quella italiana. Come sta oggi il rap?
Secondo me sta molto bene. Se è una questione meramente di numeri la domanda è superflua: adesso, a differenza di una decida di anni fa, le tracce rap e urban sono ovunque. Da un punto di vista più tecnico se vent’anni fa per fare un disco in studio ci volevano un sacco di soldi, oggi con un computer, un microfono e YouTube si possono fare molte cose. Più ragazzi hanno accesso a queste tecnologie e a questi linguaggi: su mille prima ne usciva uno, oggi ne escono cento.